Interpreti, colf e bambinai. A Trieste i volti di una povertà inedita messi a nudo dal Covid-19

Con la pandemia molti lavoratori in condizioni di precarietà si sono trovati senza alternative. E le associazioni benefiche del territorio hanno risposto alla chiamata d’aiuto di nuovi indigenti 
Una donna in difficoltà riceve una borsa della spesa in una parrocchia
Una donna in difficoltà riceve una borsa della spesa in una parrocchia

Francesco è un uomo che non ha vizi. Non beve, non fuma. Perfino l’odore del caffè non sembra tentarlo, e al bancone del bar preferisce ordinare un bicchiere d’acqua frizzante. In realtà esiste qualcosa da cui gli piace farsi sedurre: sono i romanzi storici. Ma sugli scaffali di casa sua, sono diversi mesi che non compaiono nuovi volumi testimoni di battaglie sanguinarie e biografie di imperatori munifici. «Ora che non lavoro più non mi posso permettere neanche i libri. Erano il mio unico capriccio», spiega con un sospiro rassegnato Francesco, triestino d’origine, che narra la sua vita con l’ordine meticoloso che solo chi si è ripetuto più volte la stessa storia può avere. «Per anni ho lavorato nelle scuole.

All’inizio ero assunto dal Comune come inserviente. Poi sono diventato bambinaio. Mi piaceva stare coi piccoli, medicarli se si sbucciavano, occuparmene quando le maestre si assentavano un momento. Il mio contratto iniziava a settembre e finiva a giugno. Ogni anno era la stessa storia». Anche ogni estate, per lui, era la stessa storia. La disoccupazione e i piccoli lavoretti gli permettevano di tenere la testa fuori dall’acqua, giusto il tempo di veder comparire all’orizzonte il contratto di settembre. Questa routine a lungo raggio gli aveva restituito dei punti fermi, poi spazzati via come polvere dal contesto pandemico. «È come se gli ingranaggi che mi sostenevano si fossero spezzati. L’affitto delle case popolari in cui abito è raddoppiato da tempo, i lavoretti estivi sono scomparsi perché nessuno si è più fidato a far entrare in casa i conoscenti. E io, senza più connessione a Internet, ho perso il bando per ottenere il mio solito posto a settembre. Nessuno dei miei colleghi mi ha avvisato, perché col Covid i poveri che potevano aspirare a quell’occupazione sono aumentati. La lotta per le briciole si è fatta ancora più aspra».

Francesco non ha ragioni evidenti per mantenere la calma che tuttavia emana. Eppure, ne è convinto, le cose sarebbero potute andare molto peggio di così. «Ho un amico di qualche anno più grande che deve mantenere anche il nipote. Mi aveva confidato che se fosse rimasto senza lavoro si sarebbe ammazzato. È stato un bene che a rimanere a casa sia stato io e non lui».

Il vuoto in cui decine di triestini nella sua stessa condizione sono scivolati è stata resa più sopportabile grazie a associazioni e fondazioni benefiche. Realtà che hanno visto bussare alle proprie porte una povertà nuova, dal volto insospettabile. E che si sono riconvertite nello spazio di qualche ora alle necessità dettate da una guerra che nessuno sapeva con che armi combattere. «Quando è scattata la quarantena abbiamo ottenuto i permessi per portare il cibo alle persone nonostante le limitazioni – spiega Andrea Fondacaro, volontario della comunità di Sant’Egidio, associazione che dal 1989 offre supporto ai poveri di Trieste - . Le mense erano chiuse, i buoni- spesa comunali ci hanno messo qualche settimana ad arrivare. Si è creato un vuoto inevitabile, dovuto ai ritardi fisiologici della burocrazia. Non potevamo permetterci di fermarci anche noi».

Il groviglio di controlli e limitazioni dovuti alla pandemia ha impantanato gli ingranaggi della macchina solidale proprio quando avrebbe dovuto lavorare alla massima velocità. «Ci rendevamo conto che aiutare senza mettere a rischio nessuno era complicato. Ma, al contempo, sapevamo che dovevamo intervenire in misura straordinaria. Alla fine, nelle prime otto settimane di isolamento abbiamo distribuito 380 spese, contro le 240 in tempi normali» continua Andrea, mentre compila le registrazioni di nuovi utenti davanti alle porte della Sant’Egidio. Poco distante da lui, la gente, come ogni sabato pomeriggio, si tiene a debita distanza in attesa della propria spesa settimanale.

Tra chi in coda aspetta generi di prima necessità c’è anche Adia, badante moldava di 60 anni, mandata via dalla famiglia italiana dove lavorava in piena pandemia. «I figli dell’ottantenne che seguivo mi hanno detto che non c’era più bisogno di me, che ci avrebbero pensato loro ad accudire il padre. Io non avevo il contratto. Non potevo far valere alcun diritto».

Così ha fatto le valigie senza opporre resistenza. Ha accettato di vedersi strappare ogni ombra di garanzia, consapevole che non ce ne sono per i lavoratori sommersi. Mentre pesca in una lingua che non è la sua i termini migliori per costruire il racconto, scoppia a ridere e sgrana gli occhi, come si trattasse solo di una gigantesca barzelletta. Come molte sue colleghe è convinta che lamentarsi non serva. E che Dio metterà ogni cosa al suo posto. «In qualche modo me la caverò. Solo che mi vergogno di rivolgermi alle associazioni, non volevo portare via il cibo a persone che magari stavano peggio di me. Ho paura che Dio mi punirà».

Sul territorio di Trieste, accanto alla Sant’Egidio, hanno agito anche la Caritas, la fondazione Casali, la San Martino al Campo, solo per citarne alcune. Realtà storiche che sono state in grado di portare aiuto in contesti al collasso, dove chi aveva la partita Iva o lavorava senza contratto si è trovato senza più appigli. Così è successo a Nika, una signora albanese che per anni ha lavorato con contratti a chiamata, come traduttrice nelle fiere. «Grazie alle mie amicizie facevo l’interprete quando c’era qualche grosso evento in giro per l’Italia. Quelle entrate mi permettevano una certa stabilità – spiega Nika, che vive a Trieste con sua figlia da ormai vent’anni -. Non c’era alcuna forma di tutela per me. Ma finché le cose andavano bene non ci pensavo, mi facevo bastare quello che veniva. Poi è arrivata la pandemia. Mi svegliavo con il panico e mi addormentavo con lo stesso sentimento. Adesso la situazione non è migliorata ancora. Ma gli aiuti della Casali e della San Martino al Campo mi hanno aiutata a vedere una piccola luce in fondo al tunnel». —


 

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