Intercettazioni, filmati e Dna: così la Polizia incastra il pedofilo

La tecnologia decisiva nelle indagini a carico di un barman accusato di abusi su una bambina: la conferma nelle motivazioni nella sentenza di condanna. Il fatto risale al 2017 Il racconto della vittima a tre anni di distanza ritenuto credibile
Lasorte - Trieste - Polizia - Questura - Intercettazioni
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TRIESTE. Le intercettazioni, il Gps nell’auto, le telecamere, lo studio del Dna. Ci sono voluti mesi di indagine per consegnare alla giustizia un barman che nella primavera del 2017 aveva abusato di una bambina. La violenza si era consumata all’interno di un magazzino del locale in cui l’uomo lavorava. Lo scorso novembre l’imputato è stato condannato con il rito abbreviato a due anni di reclusione con la condizionale.

A cinque mesi dalla sentenza pronunciata dal gup Giorgio Nicoli, ecco le motivazioni di quella condanna: 60 pagine da cui emerge soprattutto come la Squadra mobile, coordinata dal pm Pietro Montrone, è riuscita a incastrare l’indagato. La tecnologia è stata decisiva.

È un pomeriggio di fine maggio. La bambina è a passeggio assieme al papà e alla mamma. La minore entra per sbaglio nel bar di un hotel per prendere il gadget di un evento, una borsa a tracolla distribuita come omaggio dal negozio attiguo. Pochi minuti dopo la piccola esce piangendo, visibilmente sconvolta. «Mamma, è successa una cosa brutta...». La bimba racconta ai genitori che il barman del locale l’aveva portata in una stanza per darle le borse. «Mi ha preso per il braccio e mi ha messo le mani lì...».

La madre chiama immediatamente la Polizia. La minorenne viene visitata al Burlo. Il referto ginecologico rileva un’abrasione. «La descrizione resa dalla minore sull’episodio – si legge nella documentazione – è coerente con le lesioni riscontrate». Entra in campo la Squadra mobile. Scattano il sequestro degli indumenti e con esso l’acquisizione delle immagini registrate dalle telecamere dell’hotel. L’uomo viene messo sotto intercettazione. Gli investigatori installano nella sua auto un Gps, per seguirne gli spostamenti, e un microfono nascosto.

I sistemi di videosorveglianza del bar non registrano l’intera scena dell’abuso, ma immortalano l’indagato mentre accompagna la bambina in un’area appartata. Non solo. In alcune sequenze – quasi 61 secondi – si vede la minore che si posiziona in un angolo cieco della stanza e l’uomo che si china. La bimba è fuori dal campo visivo, ma la telecamera riprende la parte terminale della giacca dell’individuo da cui si intuisce che è in posizione prona, verso la vittima. In un frame ecco la bimba che esce dall’angolo cieco e cammina verso l’uscita sistemandosi la maglia.

I vestiti della piccola e il tampone vengono sottoposti a esame del Dna. Il gip affida l’incarico al dottor Paolo Fattorini, medico legale dell’Università di Trieste. Il perito rintraccia del Dna maschile compatibile con quello dell’imputato sugli abiti della piccola, ma non sul tampone. Il consulente ingaggiato dalla difesa, il dottor Giorgio Portera (ufficiale dei Ris in congedo e noto genetista che si è occupato di vari casi nazionali, tra cui l’omicidio di Yara Gambirasio), contesta fortemente le conclusioni a cui è giunto il perito del gip. Ma sarà ben altro a pesare sul processo e a inchiodare l’indagato: la testimonianza della bambina e le intercettazioni.

Il racconto della bambina, supportata da una psicologa, è ritenuto attendibile. La bimba quando parla agli inquirenti ricorda tutto e descrive l’abuso, i luoghi e il contesto con precisione. La testimonianza è raccolta dagli esperti con metodologie scientifiche capaci di valutare anche il comportamento non verbale. Sguardo, postura, tono della voce. La sua stessa capacità a testimoniare è sottoposta a esame. E sarà proprio il gup, durante il procedimento penale, a decidere di interrogare nuovamente la vittima: a distanza di tre anni dal fatto la minore rende una testimonianza credibile.

«Il racconto del fatto – scrive il giudice – è emerso in modo nitido e spontaneo. Nel corso del procedimento tale racconto è sempre stato confermato, senza esitazioni né sfasature rispetto al nucleo essenziale». I dubbi, piuttosto, vengono avanzati sulle dichiarazioni dell’uomo in cui è evidente «la stridente disarmonia tra la dinamica e la tempistica dell’episodio trasfusa nella versione dell’imputato e i contenuti video». Le immagini delle telecamere, insomma, lo contraddicono.

La Mobile ascolta per settimane i dialoghi tra l’indagato e sua moglie utilizzando un microfono installato a bordo della vettura della coppia. Ecco una delle trascrizioni. «In quel frangente – dice a un certo punto l’uomo rivolgendosi alla coniuge – ero diciamo... un po’... non c’ero con la testa. E la mia paura è che ci sia stato un minimo contatto che io le ho fatto. La mia paura è che io le abbia fatto solo così con la maglietta e le abbia toccato la pancia». E ancora: «Io non ero completamente in me. Secondo me quel minimo contatto ci può essere stato, ma non così grave come dicono... dopo lei magari si è spaventata, ha ingigantito la cosa». Parole che sconcertano la moglie e che avranno un certo peso nella vicenda.



L’uomo è stato condannato con il rito abbreviato a due anni di reclusione con la condizionale. Il gup ha valutato il fatto di «minore gravità»: l’atto, per quanto grave, non è stato configurato come uno stupro vero e proprio. La bambina è la sua famiglia sono stati tutelate dall’avvocato Maria Pia Maier. La difesa dell’imputato ha già preannunciato l’appello.—


 

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