Infarto dopo una dose di eroina, la verità sul giallo del Coroneo
TRIESTE. Aveva un cuore gravemente malato. È morto per un infarto scatenato «certamente» dall’assunzione, in carcere, di eroina. È questa la causa della morte del triestino 35enne Andrea Cesar, deceduto nella cella 204 del Coroneo alle 5.20 del 25 aprile di due anni fa. L’esito emerge dall’autopsia condotta dal medico legale Carlo Scorretti per conto della Procura, diretta da Carlo Mastelloni, che sul caso aveva aperto un’indagine coordinata dal pm Federico Frezza, conclusasi di recente con l’archiviazione. La famiglia del giovane ha potuto dunque procedere solo ora, dopo due anni, alla cremazione della salma.
Ma proprio adesso, con le carte in mano, la madre, Daniela P., non si dà pace: vuole sapere perché è entrata della droga in carcere, dove il figlio si trovava per aver danneggiato le parti pubbliche di un edificio e alcuni motorini, e per aver inoltre insultato gli agenti intervenuti a San Giacomo nella notte tra il 20 e il 21 dicembre 2016. Ma soprattutto la donna si chiede perché nessuno si era mai accorto che suo figlio, che aveva chiesto di rimanere al Coroneo convinto che così qualcuno lo avrebbe curato, avesse una grave cardiopatia.
Cesar era stato seguito da vari medici, compreso quello di famiglia, che l’aveva mandato al Centro di salute mentale, di cui era stato paziente prima e durante il carcere, per un malessere che lo aveva attanagliato per 14 anni, diagnosticato come attacchi di panico. È un dettaglio del referto autoptico a sollecitare nella madre la richiesta che il fascicolo venga riaperto: Scorretti parla di suo figlio come di «una persona da tempo affetta da grave patologia cardiaca, con segni di pregresso infarto». «E se invece del panico - si chiede Daniela -, il vero problema di Andrea fosse stata la cardiopatia?».
La Procura, emerge dalle indagini, ha più volte sentito i vertici del Csm - dove Cesar era in cura da circa sei mesi - ma non ha riscontrato alcuna anomalia. Eppure «Andrea non trovava beneficio da queste cure e mi ripeteva continuamente che lo stordivano e basta», scrive la madre Daniela in una lettera, in cui ha voluto anche raccontare la sofferenza e il dolore provati dalla sua famiglia e spiegare «la rabbia (di Andrea, ndr) di non poter vivere come avrebbe voluto, che lo ha portato a fare altre scelte errate, che oggi vedo come delle forzature a quella vita che gli veniva negata nei più begli anni da quella “malattia”. Se avesse potuto, l’avrebbe scambiata con un braccio, come diceva, pur di liberarsene».
I disturbi avevano isolato Cesar, che aveva smesso di lavorare come pizzaiolo. L’eccesso di alcol lo aveva spinto a commettere gesti folli a San Giacomo, il 20 dicembre 2016, il giorno del suo compleanno. Al gip nell’udienza di convalida aveva detto di essersi pentito: «Mi dispiace per quello che ho fatto, non ricordo nulla, sono disperato, voglio curarmi. Sto sempre a casa, ma non faccio niente, ogni tanto mi sfogo e capitano queste cose. Non mi piace bere, ma bevo per aver il coraggio di uscire».
Aveva passato quattro mesi in carcere, per sua stessa volontà. Alle spalle aveva dei precedenti penali «in seguito a episodi dovuti proprio a questo disperato abuso di alcol», specifica la madre. «“Ciao mamma, lo so che sarai arrabbiata - scriveva da dietro le sbarre - ma questa era l’unica maniera per cambiare e farmi aiutare. Poi non avevo altre possibilità e qua sapevo che potevo essere seguito e così migliorare. Non so se l’avvocato te l’ha detto, ma il giudice voleva farmi uscire ma io ho rifiutato».
Altre indagini potrebbero essere ancora aperte per individuare chi forniva sostanze stupefacenti a Cesar: gli esami tossicologici hanno rilevato nella bile oppiacei relativi a un'assunzione che non era stato «occasionale o isolato», ma verosimilmente si protraeva da tempo. «Che io sappia - spiega la madre - prima del carcere Andrea non ne aveva mai fatto uso, probabilmente ha iniziato quando è entrato».
Sulla presenza di droghe in carcere il direttore Ottavio Casarano (all’epoca dei fatti ai vertici c’era Silvia Della Branca) preferisce non parlare poiché, afferma, «credo ci siano ancora delle indagini in corso». È invece Alessandro Penna, segretario regionale del sindacato di Polizia penitenziaria Uilpa, a commentare il caso.
«È un problema su tutto il territorio che la droga riesca a penetrare nel carcere - spiega -. Fino a circa 5 anni fa le disposizioni per le perquisizioni personali erano più restrittive, gli agenti potevano chiedere anche di spogliarsi a chi andava a trovare i detenuti. Oggi lo possiamo fare solo se c’è un indizio di reato – conclude -. Controlliamo anche i detenuti ma c’è carenza di unità cinofile, che potrebbero aiutarci di più».
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