In mano ai pirati del mare «Da allora non navigai più»

Nel 1991 la terribile avventura di Luigi Ascione, oggi in servizio sui rimorchiatori: «Attirati in un tranello, per 13 giorni vivemmo con i bazooka puntati addosso»

di Maddalena Rebecca

Giovedì prossimo saranno sette mesi esatti dalla data del rapimento. Sette, lunghissimi mesi trascorsi nelle mani di un manipolo di pirati somali. E più il tempo passa, più l’angoscia dei familiari degli ostaggi, tra cui il triestino Eugenio Bon, cresce. Le trattative con il gruppo armato che ha sequestrato l’equipaggio della petroliera Savina Caylyn procedono a rilento e l’azione diplomatica non decolla. Per tentare riaccendere i riflettori, quindi, si stanno moltiplicano in tutta Italia le iniziative di solidarietà. Anche Trieste farà la sua parte con una fiaccolata in programma il 14 settembre (ne riferiamo in basso ndr) per chiedere subito la liberazione degli ostaggi.

Un incubo, il loro, che la maggior parte delle persone può solo immaginare, ma che qualche altro triestino, prima di Eugenio Bon, ha vissuto sulla propria pelle. Luigi Ascione, 60 anni di cui una quarantina trascorsi per mare e oggi in servizio sui rimorchiatori della Tripmare, è stato uno dei primi italiani a cadere nelle mani dei pirati somali. Tredici giorni di prigionia al largo di Bosaso, il principale porto commerciale del paese africano. «È accaduto nel ’91 - racconta -, ma è come se fosse successo ieri. Anche a distanza di vent’anni, il semplice ricordo mi fa venire i brividi. Quell’esperienza ha segnato e cambiato per sempre la mia vita».

All’epoca Ascione era imbarcato su una nave portabestiame della società bresciana Siba. Nave che non venne assaltata direttamente, ma fatta cadere in una trappola. «I sequestratori contattarono l’armatore, fingendosi interessati ad affidarci un carico di ovini - ricorda il marittimo -. Quando ci presentammo all’appuntamento, però, al posto degli animali trovammo ad attenderci pistole e bazooka. I rapitori, tutti ragazzi di 20-25 anni, ci tenevano quelle armi sempre puntate addosso, costringendoci per i primi tre giorni a rimanere stesi a terra sulla poppa della nave. Ogni spostamento, anche solo per andare in bagno, avveniva con un fucile puntato alla nuca. Un’esperienza devastante che ha fiaccato pesantemente il mio fisico: in 13 giorni ho perso 15 chili e, dalla tensione, mi sono comparse macchie marroni su tutto il corpo».

Più che il fisico, però, è stata la mente di Ascione a pagare un prezzo altissimo. «Ho convissuto con la paura e, in molti momenti, ho pensato davvero che per noi sarebbe finita male. In almeno due occasioni, poi, mi sono trovato faccia a faccia con la morte. La prima volta è stato quando uno dei rapitori mi ha chiesto di aprire la cassa in cui oltre a soldi e medicinali tenevamo una pistola lanciarazzi. Se l’avesse vista il pirata, mi avrebbe certamente ucciso e dato in pasto ai pescecani. Ma qualcuno lassù in Paradiso mi ha protetto e ha fatto scivolare l’arma in un punto non visibile. Il secondo rischio davvero grosso l’ho corso invece quando mi sono rifiutato di eseguire una manovra che ci avrebbe fatto schiantare contro una barriera corallina. Anche in quel caso, miracolosamente, mi sono salvato».

Ricordi come questi, chiaramente, sono difficili da rimuovere. «L’esperienza che ho provato io, e che ora provano i marittimi della Savina ai quali va tutto il mio sostegno, lascia addosso ferite che non si rimarginano. Ferite che cambiano radicalmente anche le scelte professionali. Dal giorno in cui sono rientrato a casa, infatti, ho smesso di navigare. Meglio mangiare pane e cipolla per il resto dei giorni, che rischiare di rivivere un incubo simile».

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