Il virus tra dietrologie e piccole verità
La scena della paura da contagio è piena di discorsi che si accavallano in un tentativo e di farci capire cosa accade e di darci un orientamento. E se toccasse proprio a ciascuno di noi, al nostro senso di responsabilità, costruire una qualche bussola nel mare delle verità? Mi riferisco alle verità diffuse da esperti, politici, dall’informazione: ai tentativi di chiarire le idee della gente sempre un po’ dall’alto, spesso col risultato di confonderle, mentre a noi, qua in basso, servirebbero piccole verità per riuscire a individuare a chi e a cosa dar retta.
Anche accreditati intellettuali stanno pronunciando i loro pensieri con toni di sicurezza, cercando di vedere il fondo della situazione e ipotizzando che cosa sta dietro. Giorgio Agamben, per esempio, che giorni fa ci ha detto che si sta montando ad arte uno «stato di eccezione» che permette ai poteri istituzionali di governare a proprio piacimento. O Roberto Esposito che gli ha fatto eco osservando che l’attuale situazione è la prova provata che politica e vita ormai sono strettamente intrecciate. O Massimo Cacciari che stigmatizza il fatto che il tentativo di “chiudere tutto” è assurdo, dunque fallimentare. Sono riflessioni perspicue che tentano di guardare dietro per vedere come il virus potrebbe modificare la governance del Paese.
Non ci dicono però se dobbiamo stare in casa o possiamo vivere tranquillamente le nostre vite sociali. L’epidemia è solo un espediente per esercitare legittimamente un potere disciplinare? Risponderei «sì e no», e tenterei di abbassare un po’ la pretesa veritativa delle affermazioni, portando l’attenzione sull’esigenza che ciascuno di noi possa diventare, anche in questo caso, soggetto responsabile, non guidato, non trascinato da idee esterne che rischiano subito di diventare ideologie o schemi mentali.
Possiamo prendere alcuni riferimenti: la scienza (come ci viene presentata la competenza scientifica), la politica (come viene organizzata l’attuale anomalia), l’economia (come viene valutato il danno materiale che ne deriva), l’informazione (è misurata o eccessiva?). Nessuno di questi comparti appare tranquillizzante, da nessuno di essi riceviamo elementi sufficienti a dare un riempimento al nostro bisogno di responsabilità. I virologi non concordano tra loro: i più credibili sono quelli che confessano che «bisogna aspettare». I politici, quando non utilizzano a fini di propaganda questo problema così incalzante, fanno fatica a governare la diversità dei poteri istituzionali, per cui finora ciascuna Regione era andata avanti da sé (per esempio, qui in Fvg ci chiediamo che senso abbia avuto tenere aperti i cinema e chiuse le scuole).
Il mondo economico sta valutando il disastro annunciato, oltre che nel turismo, a livello dei piccoli imprenditori, e spera che questa epidemia, come le precedenti, sia di breve durata. Comunque emergono ovvietà come la priorità a delle partite di serie A o il fatto che i ricchi se la caveranno mentre i poveri pagheranno cari gli effetti del coronavirus.
Quanto all’informazione, essa corre il rischio di essere fin troppo invasiva. Non basta occupare i palinsesti televisivi. Tutti ne siamo un po’ stanchi e vorremmo che l’argomento epidemia passasse dai titoli di testa, che non possono che essere “gridati”, a riflessioni meno rumorose e più meditate. Mi azzardo a credere che ciascuno di noi desidererebbe ridurre le dimensioni del fenomeno dentro cui ci troviamo impigliati per renderlo – per così dire – più domestico.
Il senso di responsabilità che sto auspicando è qualcosa di simile a un cambiamento del punto di vista tale per cui gli occhi che guardano corrispondano proprio ai nostri, miopi che siano, e non a quelli che prendiamo a prestito da chi supponiamo ne sappia più di noi e dunque veda meglio. Niente sguardi superiori, con i quali è come se ci vedessimo da fuori e fossimo in ogni momento il supervisore di noi stessi. Non esistono, neppure nell’attuale contingenza, supposte superverità in grado di regolare i comportamenti: se le sgonfiamo del potere che si arrogano troviamo dispositivi pieni di buchi, anche se questo ci disorienta poiché ci toglie utili stampelle.
Ma ci toglie anche un pezzo di soggettività al quale non possiamo rinunciare. Le “piccole verità”, di cui dovremmo nutrirci, non disprezzano il sapere o la competenza ma ci servono per limitare il potere che vorrebbero esercitare su di noi, quello di governare le nostre vite, cominciando dal demonizzare i contatti. Sta circolando un’espressione del poeta inglese John Keats: «piacere negativo», un piacere che si nutre del dubbio. La responsabilità cui alludo qui (non avendo a disposizione una parola migliore) ha a che fare con questo civile esercizio del dubbio che non è detto che debba essere fastidioso. Di certo non può essere né egoistico né autoisolante, e ci permette – credo – di socializzare con chiunque. –
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