Il viaggio in treno da Roma più lungo del volo dagli Usa

Quando studiavo greco e latino al Liceo Dante, sentivo che fuori da piazza Oberdan c'era un mondo incredibile e pazzesco che mi aspettava. Erano gli anni in cui nasceva Nouvelles Frontieres, che con i suoi prezzi bassi azzerava le distanze. Ma Nouvelles Frontieres non aveva voli da Trieste. Nemmeno il Cts. Bisognava andare a Venezia. Gli intercity, lo stesso. Tutto si fermava, o partiva, da Venezia.
Oltre Mestre si avventurava per noi, porta dell’est, il vecchio Orient express. Che una volta era stato il romantico collegamento fra oriente ed occidente, pieno di velluti rossi e mistero, di spie e di complotti alla Agatha Christie. Ma ormai il velluto era impregnato di sporco stratificato, e l'avventura era arrivare sani e salvi a destinazione. Lo prendevo per andare a Parigi, quando ci studiavo, all’inizio per risparmiare non osavo nemmeno chiedere la cuccetta. Partivi la sera dalla stazione centrale, ci mettevi un'ora solo per arrivare ad Opicina. Il passaggio della frontiera con la Francia poi era una specie di attraversamento della terra di nessuno, con gli assalti ai vagoni.
Poi mi sono trasferita a Roma, ma cercavo di tornare a casa dai miei ogni settimana. Finivo il lavoro in redazione - allora stavo nella prima trasmissione di Michele Santoro, si chiamava Samarcanda e andava in onda in seconda serata -, e scappavo dai montaggi di via Teulada. In autobus. Qualche volta trovavo qualcuno che mi portava in Vespa, di corsa, a Termini. Bisognava arrivare prima delle cinque di pomeriggio. Altrimenti la corsa non era servita a niente. Perchè a Termini c'erano tutti i treni che volevi per arrivare in serata alla solita Venezia, ma per Trieste, niente. Dopo Mestre, negli orari delle ferrovie, c’era il vuoto. Bisognava aspettare delle ore, bisognava aspettare la notte, mentre Termini col buio si trasformava, e non esattamente nel confortevole salotto della zia, e nemmeno in un cenacolo letterario.
Ma a quel punto non volevi tirarti indietro, ti sembrava già di sentire addosso quel sole tiepido di quando l’estate non è ancora cominciata, o è già finita da un pezzo, e puoi startene a Barcola al riparo dietro a qualche muretto a goderti la giornata e un libro. No, bisognava raggiungere Trieste, costi quel che costi.
Così, poco prima di mezzanotte ti infilavi nel treno, e ti barricavi in cuccetta. Me la potevo permettere, ormai, lavoravo e guadagnavo. Non abbastanza da concerdermi il vagone letto, comunque. Sveglia con l’occhio sbarrato, perchè regolarmente durante il viaggio tentavano di entrare. La leggenda metropolitana diceva che ti narcotizzavano per rubarti i soldi, le valigie. Un incubo. Arrivavo dopo un'infinità di tempo, più di quanto ci metto oggi in aereo da New York, sicuramente più stravolta anche senza jet leg.
Niente sole tiepido, niente Barcola, dormivo tutto il giorno, e la domenica, si ricominciava. Stazione centrale, notte, la battaglia barricata in cuccetta. Alla fine, pietoso, Santoro mi lasciava uscire il venerdì prima degli altri. E riuscivo a salire sul treno giusto, quello che, in piedi fino a Firenze, mi portava a Bologna, dove facevo il primo cambio, poi a Mestre, secondo cambio, e lì un locale che si fermava dappertutto, ma almeno mi consentiva di arrivare a destinazione, così il sabato potevo godermelo.
Ho resistito qualche mese. Poi papà mi ha graziato. «Piceti - mi ha detto -, forsi xe mejo se sentimo al telefono 'sto fine settimana...».
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