Il senso doppio delle parole e la realtà distorta

Pier Aldo Rovatti
epa09926485 Hats featuring the letter 'Z' on display at the Apraksin market in central St. Petersburg, Russia, 04 May 2022. On 24 February 2022, Russian troops had entered Ukrainian territory in what the Russian president declared a 'special military operation', resulting in fighting and destruction in the country, a huge flow of refugees, and multiple sanctions against Russia. EPA/ANATOLY MALTSEV
epa09926485 Hats featuring the letter 'Z' on display at the Apraksin market in central St. Petersburg, Russia, 04 May 2022. On 24 February 2022, Russian troops had entered Ukrainian territory in what the Russian president declared a 'special military operation', resulting in fighting and destruction in the country, a huge flow of refugees, and multiple sanctions against Russia. EPA/ANATOLY MALTSEV

Ogni guerra produce pesanti retoriche. Quella attuale non fa eccezione, se solo pensiamo al modo con cui all’inizio è stata mascherata la stessa parola “guerra”.

Come se qui, similmente a quanto accade in molti discorsi pubblici, il senso delle parole si sdoppiasse e venisse presentata come verità una “narrazione” opportunamente falsificata.

Le chiamiamo fake news, ma spesso non sono semplici false “notizie”, piuttosto pretendono di essere l’immagine “vera” della realtà.

Se la riceviamo passivamente, come spesso accade, allora il senso delle parole corrisponde a questa immagine. Se invece siamo capaci di mettere in atto un atteggiamento critico, allora al di sotto del significato fittizio riusciamo a percepire una verità nascosta.

Pare facile, almeno da dire: dobbiamo essere in grado di combattere la persuasività di cui si ammantano le retoriche – da sempre, ma oggi però con tecniche decisamente sofisticate – per raggiungere la realtà che esse occultano, la cosiddetta verità delle cose.

Ma non è tanto semplice, la questione si rivela subito più complicata: possiamo davvero parlare di una opposizione tra falso e vero pensata in questo modo? È una storia vecchia.

Anzi, è un rischio nel quale il pensiero – anche quello più alto e apprezzato – tende di continuo a ricadere, appunto l’accontentarsi di pensare che dietro le menzogne stia la verità, ipotizzando quasi sempre che la menzogna sia interessata mentre la verità abbia in qualche modo la virtù della purezza disinteressata.

È molto difficile sottrarsi a un simile rischio, sempre di più quanto più cresce la nostra fretta di arrivare al dunque senza fare molti giri. La logica mediatica (esempio lampante: la televisione) addestra tutti, “attori” della comunicazione e “spettatori” della medesima, a essere rapidi: il messaggio deve essere breve, altrimenti addio all’ascolto. Se la brevità è il segreto della attuale comunicazione, la verità dovrà essere a propria volta una faccenda poco ingombrante, racchiusa nello spazio rapido di un sì o di un no.

Ma le parole non si lasciano ingabbiare in uno spazio così angusto e predeterminato poiché, per essere davvero comprese, chiedono l’esatto contrario. Per capirle, dovremmo essere capaci di arricchire il loro senso accorgendoci che questo senso si allarga e spesso si raddoppia, diventa un “senso doppio”, il contrario di un doppio senso.

Gli esempi di quanto sto dicendo possono essere moltissimi e riguardano le parole alle quali diamo di solito grande importanza, da quelle più generali, come “politica”, “democrazia” o “morale”, a quelle più quotidiane, come “amicizia”, “piacere” o “interesse”.

Tutte queste parole possiamo “strozzarle” in un senso ristretto (e nelle rispettive verità ridotte) oppure farle “respirare” aggiungendo aria ai loro significati.

Facciamo l’esempio della parola “comunità”. “Strozzarla” significherebbe (significa, quasi sempre) ridurla a una verità che presupponiamo come conosciuta e indiscutibile, così come pretendiamo di identificare le retoriche e le falsità con cui ci viene spesso presentata. “Aggiungere aria”, allora.

Ma che cosa intendiamo: solo un allargamento del suo senso? Non credo perché, se “apriamo” davvero una parola come questa, possiamo subito scoprire che la comunità non è mai a senso unico e che dentro a ciò che la parola indica si rivela un fondo che allude a quanto non conosciamo dello stare assieme con gli altri e anche alle contraddizioni (verrebbe da dire: ai “doppi vincoli”) che essa contiene.

Siamo rimandati – stando sempre a questo esempio – all’importanza stessa della domanda “cosa significa stare assieme?” e alla nostra incapacità di dare una risposta esauriente e definitiva. Ma soprattutto viene alla luce l’esigenza di sospettare di ogni risposta che voglia agire (dentro di noi) come quella definitiva.

Ed è abbastanza prevedibile che ci troveremmo nella condizione di non avere né tempo né voglia di occuparci di un senso che va oltre sé stesso e si raddoppia. Anche se l’avessimo, ci sembrerebbe tempo perso, scarsa capacità di corrispondere alle esigenze concrete.

Basta guardarsi attorno o rivolgere uno sguardo all’indietro per accorgersi che le nostre sconfitte nascono quasi sempre dalla convinzione di avere in mano il senso della realtà e di non voler vedere oltre, diversamente, anche contraddittoriamente, rispetto al senso già stabilito delle cose.

Argomenti:etica minima

Riproduzione riservata © Il Piccolo