Il sacrificio di Oberdan naufragò nell’Italietta senza sogni e prestigio

Domenica al teatro Verdi la quarta “lezione” di Storia organizzata dagli Editori Laterza con Piccolo e Comune, relatrice Simona Colarizi

 

Il 20 dicembre 1882 Guglielmo Oberdan veniva impiccato nel cortile interno della caserma di Trieste. Per gli austriaci era un traditore che aveva attentato alla vita dell'imperatore; per gli italiani era un patriota «morto santamente per l'Italia», come aveva scritto Giosuè Carducci. Un eroe italiano, dunque, un martire nell'agiografia risorgimentale che indicava il culmine del Risorgimento nella grande guerra del '15-'18 - la quarta guerra di indipendenza come veniva definita. Solo allora erano state liberate tutte le terre ancora “irredente” tra le quali Trieste che aveva atteso con impazienza la sua “redenzione”. Una lettura storica che più approfonditi studi hanno in gran parte messa in discussione.

In discussione non è però l'italianità di una parte importante della popolazione triestina, comprese le sue élite dirigenti che parlavano in italiano e nella cultura italiana si riconoscevano. È l'aggettivo “irredenta” che riferito a Trieste viene ampiamente contestato. Nel significato che al termine irredentismo attribuiva Imbriani, l'irredentismo evocava un progetto di distacco dall'Impero asburgico, la modificazione cioè dei confini politici e il conseguente passaggio dei territori all'Italia. Descrivere l'intera popolazione triestina protesa verso questo obiettivo, era un'illusione o una speranza di Oberdan, anche se specie negli anni del fascismo questa interpretazione era diventata vulgata corrente. Certamente esisteva nella città una minoranza irredentista, ma si trattava appunto di una minoranza che chiedeva il ricongiungimento al nuovo Stato Sabaudo. La maggioranza degli italiani nazionali triestini si limitava invece a difendere su un piano strettamente legalitario l'identità italiana e a rivendicare autonomia e autogoverno, garanzie indispensabili per proteggere la lingua, la cultura, l'istruzione, insomma la libertà di sentirsi e di essere italiani generazione dopo generazione.

Nel corso degli anni non erano mancate frizioni col potere centrale; frizioni però che sul finire del XIX secolo si acuivano e si intrecciavano alla crescita degli altri nazionalismi nell’impero multietnico degli Asburgo, in particolare del nazionalismo slavo percepito dai triestini come una sfida, una minaccia all'italianità di Trieste. Si sentiva minacciata la classe dirigente italiana che deteneva le leve del potere politico ed economico nella città dove l’afflusso dalle campagne degli slavi stava rovesciando gli equilibri del passato. Ad aggravare la tensione con gli slavi concorreva il progressivo declino demografico degli italiani nell’intero impero asburgico, compresa anche Trieste trasformata di fatto la maggiore città slovena, superiore anche a Lubiana, come testimoniano gli impressionanti dati del censimento del 1910. Solo i socialisti diventati più forti con lo sviluppo del porto, cercavano di farsi interpreti dell'anima cittadina multinazionale per sottrarre il proletariato triestino alla trappola del conflitto nazionale destinato a spezzare la solidarietà di classe e a ostacolare la strada dell'emancipazione sociale. Restavano però posizioni minoritarie di fronte a un sentimento di italianità esasperato anche dalle tensioni in atto nello scenario internazionale.

Dopo il 1870, il Regno Sabaudo abbandonati i sogni di ottenere nuovi territori all’Italia, aveva ancorato la sua politica estera al patto con la Germania a sua volta legata all'Austria, cioè quella Triplice Alleanza firmata nel 1882, proprio lo stesso anno dell'esecuzione di Oberdan. Una dimostrazione palese che la ragione di Stato prevaleva sulle pulsioni irredentiste. Col passare degli anni però la Triplice Alleanza rinnovata a ogni scadenza, non appariva più una solida garanzia di stabilità in un quadro internazionale ormai profondamente alterato dalle tensioni interne ed esterne ai due grandi imperi multietnici, l’asburgico e l’ottomano. I venti di guerra che soffiavano sull’Europa facevano riemergere la contraddizione di fondo tra una politica estera improntata alla real politik e gli ideali risorgimentali di cui l’irredentismo era componente fondamentale. Lo Stato italiano nato per realizzare l’unità nazionale non poteva abdicare alla sua missione storica senza mettere a rischio la sua stessa legittimazione e svuotarsi contemporaneamente di ogni contenuto ideale. Ma i confini della “nazione italiana” da unificare - intesa appunto come aggregato di persone che avevano lingua, storia, cultura, radici e tradizioni comuni – andavano al di là delle frontiere raggiunte dagli eserciti sabaudi con le guerre di indipendenza. Crescevano dunque in Italia gli appelli a “redimere” i territori “irredenti”; appelli che trovavano una sponda estrema nei nazionalisti, in violenta polemica con il governo Giolitti e la sua “Italietta” senza sogni e senza prestigio internazionale. Adesso si invocava la “Grande Italia” , una potenza capace di ricongiungere alla madre patria tutti gli italiani soggetti al dominio straniero, anche al costo di una guerra.

La “quarta guerra di indipendenza” realizzava l'unità nazionale con l'annessione all'Italia di Trento, Trieste, Istria e parte della Dalmazia. L'Impero Asburgico multi-nazionale era distrutto e con la sua fine scompariva anche la “nazione triestina”. Quando finalmente nel 1918 il sogno di Oberdan si compiva con l'ingresso in Italia, Trieste si trasformava da città snodo marittimo dei traffici mercantili degli immensi territori asburgici in una provincia di frontiera dell'Italia con un passato grande e un presente angusto. Tra gli intellettuali triestini questo esito infausto era stato previsto – e lo dimostra appunto la tormentata ricerca di una mediazione tra slanci irredentisti e rivendicazioni alla peculiare identità di Trieste. Più recentemente e con lo sguardo a più largo raggio sulla tragedia dell'Europa delle nazioni travolta dalla catastrofe di due guerre mondiali, dai massacri e dalle stragi, dai genocidi e dall'olocausto, si sta verificando tra gli studiosi non tanto una “rivalutazione degli imperi”, quanto una riflessione nuova sul nazionalismo che da istanza di libertà si era trasformato in ideologia della potenza.

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