Il referendum sul nuovo nome della Macedonia traballa tra crisi, corruzione e clientelismo

Alle urne il 30 settembre. Per i sondaggi “sì” avanti: il governo ha legato il quesito all’ingresso nell’Ue e nella Nato
epa06781245 Supporters of the biggest opposition party, conservative VMRO DPMNE, wave flags and shout slogans during the anti-government protest in front of the Government building in Skopje, The Former Yugoslav Republic of Macedonia, 02 June 2018. Supporters of VMRO DPMNE are protesting against Government politics and over compromise solution in Macedonia's dispute with Greece over the country's name. EPA/GEORGI LICOVSKI
epa06781245 Supporters of the biggest opposition party, conservative VMRO DPMNE, wave flags and shout slogans during the anti-government protest in front of the Government building in Skopje, The Former Yugoslav Republic of Macedonia, 02 June 2018. Supporters of VMRO DPMNE are protesting against Government politics and over compromise solution in Macedonia's dispute with Greece over the country's name. EPA/GEORGI LICOVSKI

SKOPJE Dovrebbe essere già tutto scritto. Il referendum sul nuovo nome della Macedonia - ossia Macedonia del Nord, uscito dopo anni di veti, tensioni e mediazioni con la Grecia, secondo la quale solo la sua regione settentrionale poteva fregiarsi di tale nome - dovrebbe avere un esito scontato con la vittoria del sì anche perché l’interrogativo che l’elettore macedone si troverà sulla scheda il prossimo 30 settembre recita: «Siete favorevoli all’ingresso nell’Unione europea, nella Nato e all’accordo tra la Macedonia e la Grecia (sul nome per l’appunto ndr.)?» Ma nei Balcani mai dare nulla per scontato, soprattutto quando ad essere toccate sono le corde del nazionalismo come possono essere quelle legate al nome stesso della nazione madre.

Anche se l’opposizione potrebbe addirittura decidere di boicottare il referendum la coalizione di governo guidata dal socialdemocratico Zoran Zaev non naviga certo in acque tranquille, soprattutto perché la grande stagione delle riforme annunciate all’inizio del proprio mandato è rimasta tristemente al palo. I macedoni e gli albanesi che vivono nel Paese, infatti, da sempre hanno posto l’accento sui problemi riguardanti la crisi economica, la povertà che si allarga, la corruzione e il clientelismo che ghermisce lo Stato. In secondo piano i rapporti interetnici e quelli legati ai temi di politica estera.

Il Partito socialdemocratico del premier Zaev invece ha continuato ad alimentare incessantemente il mantra secondo il quale con l’ingresso di Skopje nell’Unione europea e nella Nato nel Paese cominceranno a colare latte e miele.

Il governo è stato principalmente impegnato a creare relazioni ottimali con i Paesi confinanti il che ha portato a un accordo con la Bulgaria e allo storico accordo con Atene sul nome sottoscritto con il premier ellenico Alexis Tsipras con Macedonia e Grecia sottoposte alla fortissima pressione di Washington e di Bruxelles. Ma entrambi i firmatari non sono stati in grado di preparare la propria opinione pubblica e i partiti politici all’accordo. Il risultato? Lo scatenarsi delle forze nazionaliste così a Skopje come ad Atene che hanno parlate entrambe di tradimento riferendosi ai rispettivi governi.

Secondo i risultati del sondaggio effettuato di recente dal Centro macedone per la cooperazione internazionale nel Paese si recherebbe alle urnne per la consultazione popolare il 66,4% degli aventi diritto. Il 41,5% risponderebbe “sì” al quesito referendario (quindi accetterebbe il cambio del nome), mentre il 31,5% segnerebbe una ics sul “no”. Il 19,8% degli interpellati ha affermato che boicotterà il referendum mentre l’11,9% è ancora indeciso su quale posizione prendere nel segreto dell’urna.

Se si analizza il sondaggio da un punto di vista etnico si vede come addirittura l’88% degli albanesi voterebbe “sì” mentre tra i macedoni i “sì” toccherebbero appena quota 27,4% ed è chiaro come scatti ancora una volta il “meccanismo nazionalista”.

Per il premier Zaev e la sua posizione filoeuropeista e atlantista la vittoria, dunque, non è assolutamente scontata anche se sembra difficile che il Paese dica di “no” non tanto al nome quanto a Bruxelles e all’Alleanza Atlantica perché così facendo, e non bisogna essere degli statisti per comprenderlo, rischierebbe di restare una sorta di “buco nero” nei Balcani occidentali. —

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