Il racconto della ragazza aggredita dall'autista: «Mi ha immobilizzata e stuprata»

Parla la ragazza vittima della violenza sul minivan a Sistiana: «Un film da incubo. Non ce la facevo a fermarlo e non riuscivo a credere che stesse capitando proprio a me»
Un'immagine generica di violenza sulle donne
Un'immagine generica di violenza sulle donne

TRIESTE. «Penso di avere la fortuna, che in questo caso è una sfortuna per l’uomo che mi ha stuprata, di possedere una memoria fotografica di ferro, a volte i miei ricordi sono come dei quadri, sa?». Daniela (è un nome di fantasia) beve a sorsetti il suo caffellatte al tavolino di un bar di San Giacomo, non troppo distante dall’appartamento che condivide con altri tre studenti. Sorride orgogliosa quando parla di se stessa, dei suoi progetti: «Ho la passione per le materie sanitarie, di cui mi sono in parte già occupata, ma studio e studio nella speranza di poter entrare a Medicina, per potermi mettere sempre di più al servizio degli altri». Il suo volto s’irrigidisce, i suoi occhi si perdono solo quando ricorda ciò che ha passato in quella maledetta sera di venerdì 20 maggio, quando di ritorno da una festa universitaria privata al “Cantera” ha denunciato di essere rimasta vittima di una ripetuta violenza sessuale a bordo di un minibus che faceva la spola tra la Baia di Sistiana e il centro di Trieste. Denuncia dalla quale è scaturita una vera indagine transfrontaliera tra i carabinieri italiani e la polizia slovena che ha portato all’arresto di Mustafa Mahmutovic, il conducente di quel minibus.

 

Trieste, stuprata dall’autista di ritorno dalla festa
Un gruppo di giovani al Cantera di Sistiana

 

Non fosse per una chiacchierata che ruota gioco forza su un argomento così crudo e agghiacciante, sentirla parlare è un piacere. Le sue frasi sono, effettivamente, come un pennello. Descrivono a metafore. A volte addirittura fotografano, tanto da far pensare che abbia ragione quando si vanta del suo dono di memoria. «Sia chiaro - attacca con ironia Daniela - che non voglio passare per una che beve né tantomeno per una che, quella sera, era ubriaca. Ubriaca, poi, al punto da consegnarsi a uno mai visto prima? Non scherziamo, su. Avevo bevuto qualche drink, è vero. Ho deciso di tornarmene a casa prima proprio perché non volevo più bere né ballare, all’indomani avrei voluto essere in forma, con la testa, per studiare». Ed è così, con una puntualizzazione, che si arriva al dunque. All’inizio dell’incubo reale.

«Col senno di poi che è una bella cosa ma serve a poco - si rituffa indietro di una dozzina di giorni - avrei fatto meglio ad andare a Capodistria per il concerto dei Muro del Canto, i miei preferiti insieme a Lucio Dalla. Invece ho optato per la festa di fine corso delle facoltà sanitarie. Avessi scelto il contrario non credo proprio mi sarebbe capitato questo disastro». E allora eccola lì, a Sistiana, quella sera: «Avevo ballato, ero stanca, pensavo che all’indomani avrei dovuto studiare. Ho il test d’ingresso a Medicina come un chiodo fisso nella testa. Sapevo che avrei potuto avere un passaggio in auto da un’amica soltanto molto più tardi, e così da un’altra amica mi sono fatta accompagnare fino all’inizio della rampa della Baia, dove c’erano i mezzi che facevano la spola per Trieste».

Una volta “scortata” dalla discoteca ai pullman, insomma, si sentiva al sicuro. «Sono salita su uno dei minibus, e ho chiesto al conducente: “Sei tu quello che parte per Trieste? Lui mi ha risposto “sì”. È stata l’unica parola che l’ho sentito dire in italiano. Mi sono seduta in uno dei posti davanti, accanto a lui, per poter distendere una gamba che mi duoleva. Avevo mal di testa. Non amo la musica troppo alta. Quando ha messo in moto ho chiuso gli occhi per riposare, ma senza addormentarmi. Sotto le palpebre vedevo l’alternanza delle luci della strada. Poi, a un certo punto, non l’ho più vista. Ho riaperto gli occhi e, prima che potessi reagire, lui ha proferito qualcosa in una lingua che non ho compreso e con il suo peso mi ha bloccata. Avevo una mano dietro la schiena e lì è rimasta immobilizzata, e l’altra me l’ha bloccata. Poi mi ha stuprata. Fuori, ricordo solo la vista di qualche albero scuro e il rumore delle auto che passavano, non ho idea quanto vicine potessero essere. Eppoi un lampione dietro di lui. Ero terrorizzata, incredula. Non riuscivo a crederci, a credere che una cosa che solitamente si pensa possa succedere in tv, in un film, agli altri, la stessi provando io sulla mia pelle. Non riuscivo a fermarlo, il suo corpo mi bloccava. Ed è stato a quel punto che è come se mi fossi staccata dal mio, di corpo. Mi sono rifugiata in qualche angolo del mio cervello dove lui non potesse toccarmi. No, almeno lì no. Sono diventata spettatrice di me stessa, della mia vita, incapace di reagire». Uno stato di choc talmente potente che spiegherebbe, «così mi hanno detto anche gli investigatori che ringrazio per il modo in cui mi hanno assistita», il motivo per cui Daniela nella sua prima denuncia ha riferito di essere stata stuprata due volte.

«Sì, l’ha fatto. Io pensavo che lui avesse ripetuto la violenza durante un unico viaggio. In realtà, come pietrificata, senza coscienza, devo essere rimasta a bordo di quel minibus più a lungo. Lui è arrivato in piazza Oberdan e ha caricato altri ragazzi. È tornato a Sistiana, li ha scaricati e io ero ancora lì, paralizzata. Siamo ripartiti nuovamente da soli, e dev’essere stato allora che ho subito il secondo stupro». Al rientro definitivo in piazza Oberdan, «mi ha quasi spinta giù dal pullmino. Ho preso un taxi. Volevo solo arrivare a casa, rifugiarmi nell’unico posto che ritenevo sicuro, il mio nido. Mi sono gettata nel letto senza nemmeno togliermi il trucco. E ho pianto. Ma in silenzio, perché non volevo disturbare i miei amici coinquilini che stavano già dormendo». «La mattina dopo, quando mi sono alzata e mi hanno vista, hanno capito. Volevo urlare, non mi usciva una parola. Ho chiesto a loro un cellulare, perché il mio l’avevo perso quella sera, e ho fatto l’unico numero che conosco a memoria. Quello di mio padre. Gli ho raccontato tutto. Poco dopo è arrivata mia madre, che in quei giorni era a Trieste ospite di parenti. E con lei i carabinieri. Mi hanno chiesto di mostrare loro i vestiti che indossavo la sera. Erano sporchi di sangue».

Poi il Burlo, gli esami, compresa la prima dose di profilassi anti-Hiv. E infine la deposizione-fiume in caserma. Una bomba di sensazioni che Daniela sta pian piano smaltendo: «Ma è giusto ciò che ho fatto, molte ragazze decidono di non denunciare e cercare di dimenticare. Io invece voglio giustizia per me stessa e voglio evitare che questo animale - no, questo essere perché gli animali hanno più umanità - non possa un domani rifare a qualcun’altra quello che ha fatto a me».

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