Il presidente dell’Austria a Trieste: "Siete ancora il nostro porto"

In visita privata in città ne esalta il mare, la vivacità, il movimento e l’allegria. Sull'Ue: "L'Europa è l'unico antidoto ai nazionalismi populisti di ritorno"

Ma chi è quel tipo in maniche di camicia che passeggia sulle Rive di Trieste, mentre il trio Fedriga-Dipiazza-Paoletti vaga in giacca e cravatta per Isola-che-non-c’è del Parco del mare? Se lo chiedono parecchi triestini, vedendolo attorniato da una banda di amiconi e salutato con calore da turisti di lingua tedesca.

Non è un attore famoso, un pilota di Ferrari, un noto tour-operator e nemmeno un velista d’altura venuto per il varo della barca sfidante di Coppa America. Di certo è un uomo importante, di stile europeo, che si muove senza scorta, stringe la mano alla gente e si sottopone docilmente alla richiesta di “selfie”, ma si defila accuratamente da eventi e incontri ufficiali.

Ma sì, è lui, Alexander Van der Bellen, presidente della Repubblica d’Austria, conosciuto anni fa durante i tempestosi reportage al tempo di Joerg Haider. Il presidente figlio di rifugiati, ex leader dei Verdi d’Oltralpe, venuto per tre giorni pieni in visita alla città che fu il porto di Maria Teresa. Gita di gruppo, su pullmino Volkswagen, con amici viennesi, sistemazione segreta e un “basista” triestino capace di mantenere l’incognito.

Programma intenso ma di assoluto relax: «Ja, ja, Entspannung», sottolinea Peter Schwarz, consigliere sul tema immigrazione, godendosi uno spritz in un locale di Grignano. Visita al Castello e al parco di Miramar, discesa in Grotta Gigante, veleggiata in baia con “borin” di lusso, cena da amici o in un club nautico, camminata per gli immensi viali deserti del Porto Vecchio ancora in cerca d’autore, con la Centrale idrodinamica più bella d’Europa inspiegabilmente chiusa al pubblico.

Come spesso accade nella nostra storia, se Trieste non va all’Europa, è l’Europa che va a Trieste. Quando i notabili della città di San Giusto si opposero all’istituzione della franchigia per tutelare le loro micro-rendite, fa Vienna a imporre la decisione che avrebbe fatto la fortuna della città. Lo si legge anche oggi nei progetti sulla ristrutturazione immobiliare del Porto Vecchio, dove la pubblica amministrazione sembra più propensa a evitare che a favorire un intervento di valore europeo.

Col risultato che del destino dell’area portuale più interessante del Mediterraneo oggi si sembra discutere con maggior calore tra gli urbanisti di Amburgo e di Vienna che tra quelli della città interessata. Trent’anni fa il cancelliere bavarese Franz Josef Strauss giunse a Trieste per una visita ufficiale, accolto da cinquantamila persone, ma i soliti notabili della città pensarono bene di chiudere le porte ai nuovi venuti.

Ma ecco cosa ci ha detto il presidente austriaco lasciando la città nelle stesso ore del grande varo sulle Rive.

Allora, Presidente. Perché a Trieste?

Intanto per un bel giro di amicizie. Peter Schwarz, una delle persone che mi sono più vicine a Vienna, ha un cugino a Trieste che ci ha organizzato questa bella visita tra amici, mostrandoci il meglio della città. E poi siamo venuti, ovviamente, per i cinquecento anni di storia comune fra Trieste e Vienna. Nella memoria collettiva degli Austriaci, Trieste è sentita ancora come il porto... di casa sul Mediterraneo.

Ha trovato una tipica città italiana o qualcos’altro?

Italiana, piena di festa, movimento e allegria. A vederla in giornate così si respira l’aria di un centro da mezzo milione di abitanti, e per me è stato sorprendente scoprire che ne ha meno della metà, più o meno come Innsbruck. Con la differenza che Innsbruck è una città di provincia, mentre Trieste si presenta come una grande città.

Con architettura austriaca...

Certamente. Gli immensi spazi del Porto Vecchio che abbiamo visitato in incognito sono austriaci. Il fronte mare lo è. Piazza dell’Unità d’Italia è tutta austriaca, offre la memoria di un grande passato economico e culturale. Il fatto è che poi pensi che in quella stessa piazza, ottant’anni fa, Mussolini ha annunciato le leggi razziali in mezzo a ovazioni di folla. E pensi che quella non è affatto storia finita, con i fantasmi che si risvegliano oggi in Europa.

È preoccupato?

Mi sono sempre sentito europeo e la tenuta dell’Europa è il primo dei miei pensieri. Specialmente ora che si approssima, a fine giugno, il mio turno come presidente di turno dell’Unione. L’Europa è l’unico antidoto ai populismi nazionalistici che ritornano. È uno scudo contro la discriminazione dei deboli e delle minoranze. Il nostro grande garante della pace. Bisogna dirlo forte alla gente.

Quanto importante è la memoria?

È importante ricordare che il Male si è sempre fatto strada in sordina. Prima con i sussurri, poi con le urla, finché queste sono diventati fatti. Gli ebrei non furono uccisi subito, ma con le parole si preparò la strada perché venissero considerati insetti. Da qui la strage a cuor leggero che avvenne dopo. In Italia abbiamo avuto anche la persecuzione degli sloveni. Sono cose che oggi sembrano irreali e irripetibili. Invece non è così. Niente di più facile che offrire dei nemici alla gente.

Che fare allora?

Cultura, istruzione, narrazione. Mi batterò perché gli scambi di Erasmus non siano limitati agli studenti ma siano aperti a tutti i giovani. Dobbiamo diffondere l’inglese, il che diventa paradossalmente più facile con l’uscita dell’Inghilterra dall’Ue. Bisogna portare ai giovani a visitare i campi di concentramento e raccontare quei luoghi spiegando che non sono archeologia, ma cose di oggi, teatro di una tragedia appena avvenuta.

Con che linguaggio?

È questo il vero nucleo del problema. È urgente trovare un linguaggio che vada dritto al cuore. Voglio lavorare su questo. La Commissione europea è tutta regole, testa, e questo non basta. Io stesso, nella mia cultura universitaria, ho sempre guardato al mondo col cervello. Ora mi rendo conto che abbiamo bisogno di andare oltre, toccare la sfera delle emozioni per contrastare le nefaste pulsioni dello stomaco. Non possiamo restare silenziosi. Voglio poter guardare negli occhi i miei nipotini e dir loro che non sono rimasto con le mani in mano.

Ci sono anche i collegamenti. Fino al 1914 Trieste aveva dodici treni al giorno per Vienna. Oggi nessuno.

Ma sì. È pazzesco che non ci sia nessuna linea diretta. Quando penso che Trieste è stata la quarta città di un impero, un centro formidabile di commerci, Mi dico che non è possibile.

Teme una dissoluzione dell’Europa?

La deriva dell’Europa mi preoccupa. Ma penso anche che se la situazione fosse davvero così grave, io non sarei mai stato eletto. Io, Alexander Van der Bellen, figlio di profughi, di padre russo, madre estone e cognome olandese. Non le pare?

Cosa ha apprezzato di Trieste, città europea?

Il mare. Che meraviglia l’altra sera, la cena in cima a un molo, circondati dall’acqua... E poi la gita in barca l’altra mattina, col vento giusto da terra e il genoa dispiegato, fino a Miramare e ritorno. La visita al castello è stata importante, la direttrice ci ha portato a vedere il dipinto di Manet sulla fucilazione di Massimiliano. Andreina Contessa ha mostrato energia e competenza. Si sente che ha lavorato anche all’estero.

Vive la leggenda di Massimiliano?

Sa, gli austriaci amano le storie sfortunate, e mi pare che anche i triestini le amino... Ma il personaggio non era poi così interessante. La sua fine dice molto della sua ingenuità.

Cent’anni fa finiva la guerra dichiarata dall’Italia contro l’Austria, per Trieste. Perché non ricordare con Mattarella il ritorno della pace?

È una buona idea. In Austria il 2018 significa soprattutto il centenario della nascita della Repubblica e l’ottantesimo anniversario dell’annessione da parte della Germania nazista. L’anniversario della guerra è vissuto in sordine. Dargli questo significato può essere importante. Valuteremo in che forma simbolica ricordare tutto questo.

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