Il poeta solitario che ha dato voce ai nostri tormenti
TREVISO
«Non ancora, non abbastanza/non crederlo/mai detto/in pieno e compitamente/il tuo debito con il mondo./Aperto...». È così che Mario Luzi descrive un “Auctor”, in una delle più belle poesie che mettano in corrispondenza l’impegno di un poeta con la sua scrittura, la ricerca, la fatica, quella precisa mancanza in grado di svelarci ciò che siamo. Non ci sono forse versi più adeguati per ricordare Andrea Zanzotto.
Zanzotto non si può archiviare come un grande poeta, come lo sono stati Luzi, Giudici e Sanguineti. C’è qualcosa che continuerà a sfuggirci nella sua poesia, qualcosa che ci sbaraglia con più forza, una sperimentazione in grado di ridurci a una specie di meraviglia afasica. In fondo, con termini diversi, è lo stesso commento che ci conferma Stefano Agosti nella prefazione del Meridiano Mondadori dedicato al poeta veneto (1999). Pare quasi un paradosso, da parte di lettori e di critici, ma per quanto la sua poesia sia labirintica, tutti sono in grado di riconoscere che è stato il più grande autore in versi della sua generazione.
Una vita, la sua, che non dobbiamo certo prefigurarci dentro i limiti di immaginari collettivi che spesso affidano all’artista biografie bizzarre. Inoltre Zanzotto, per questioni anagrafiche, vive la sua giovinezza a cavallo del secondo conflitto mondiale e la “tempra” che eserciterà con la parola, si innesca subito nella realtà. Partecipa alla Resistenza nelle file di Giustizia e Libertà, occupandosi della propaganda e nel 1942 tiene una presentazione di Montale con una lettura in chiave etica e politica. Lo studio, le responsabilità, le fatiche del dopoguerra lo costringeranno a emigrare in Svizzera per rientrare in Italia nel 1947, quando si riaprono le prospettive di un lavoro.
In tutto questo già si delinea la figura di un vero artista: la presa di distanza da scuole e gruppi. Lo testimonia il suo articolo apparso a proposito dei “Novissimi”, l’antologia che promuoveva la nuova avanguardia poetica raccogliendo versi di Porta, Balestrini e Sanguineti, tra gli altri. Zanzotto ne prende subito le distanze con una riflessione apparsa sulla rivista “Comunità”, in cui sottolinea la sua idea di poesia come “esperienza individuale”. Dichiarazioni, queste, per cui uno scrittore paga spesso pegno, ma non fu il suo caso.
D’altra parte non è azzardato dire che nessuno come Zanzotto era dotato di una forte apparecchiatura retorica, non solo nelle scelte lessicali, ma anche nella costruzione del discorso e questa è una cosa che la poesia, anche la più grande, non è sempre in grado di comunicare, soggiogata com’è dal fascino dell’evocazione emotiva. In fondo, se ci guardiamo indietro, prima di Zanzotto l’unico poeta italiano equipaggiato per travasare la filosofia nella poesia è stato Leopardi. E la nicchia dei poeti di allora era in grado di riconoscerlo. Primo fra tutti Vittorio Sereni, di cui il poeta veneto amava moltissimo “Frontiera”, uno dei pochi libri che si era portato sotto le armi, riconoscendone subito gli aneliti e le corrispondenze, come scriverà poi in “Per Vittorio Sereni” nel 1991.
Negli anni Cinquanta iniziano le pubblicazioni importanti, quasi tutte targate Mondadori, le traduzioni, gli interventi critici, i premi. È inutile farne un lungo elenco, basti dire che Zanzotto ha ricevuto il Premio Viareggio, il Bagutta, il Premio Poesia Europa, il Montale e molti altri. Così come è necessario ricordare la sua versatilità di scrittura, votata principalmente alla poesia, ma prestata anche al cinema.
Non pochi sono i dialoghi e i versi che Zanzotto ha scritto per Fellini (nel “Casanova”, per esempio). O ancora la sua penna si è prodotta nel giornalismo, per il “Corriere della sera” a cui ha collaborato fino a pochi anni fa. Ciò che conta tuttavia è la sua personale invenzione, la formulazione di un codice sempre soggetto all’imprevisto, al cambiamento, un’articolata evoluzione che tentiamo di tradurre nella sua poetica. Perché sono proprio i suoi versi che hanno fatto del microcosmo veneto un esempio universale di ciò che rimane in bilico tra progresso e perdita.
Una lingua che se nelle prime opere è ancora lineare, successivamente si nutre di tutti i frammenti possibili dell’epoca (e dell’io): dal sogno all’inconscio, dal paesaggio all’infanzia, dalla semiologia alla psicoanalisi. Fino alla lacerazione tra natura e storia in opere come “La beltà” (1968), “Il galateo in bosco” (1978), “Fosfeni” (1983), “Idioma” (1986). Una sfida continua. Se in “Dietro il paesaggio” (1951) Zanzotto può ancora parlare di ciò che ci è “esterno”, di ciò che crediamo appartenerci come familiare, successivamente il poeta si affiderà al “petèl” (il linguaggio dei bambini che si ferma a uno stadio di semicoscienza), la lingua in cambio del “luogo” insomma perché quest’ultimo non può più trasmetterci un codice salvifico, distrutto com’è dalla civiltà e dai consumi. A cui segue la descrizione della catastrofe tramite gli eventi (la guerra o la mutazione psicologica dei costumi) o tramite la lingua (dove il poeta s’impossessa delle moderne consapevolezze linguistiche, da Saussure a Lacan).
Ma attenzione, come ha scritto Bandini, con buona pace dei dottori sottili della nostra epoca: Zanzotto non appartiene alla schiera di chi afferma che la parola reca in se stessa il segno della morte (che causerebbe lo smarrimento del significante). E i suoi versi non sono mai sudditi di una forma, così come non abitano mai un sistema. Anzi, Zanzotto strumentalizza il sistema. Il tentativo è quello di una lingua capace di dire e di essere, in una battaglia faticosa, sfinente, che si muove in una specie di limbo dove al poeta spetta il compito di individuare la linea sottile che divide il conscio dall’inconscio, l’afasia dal patrimonio linguistico e magari è lì, in quell’area sconosciuta e vagante che la parola può emergere nella sua (e nostra) essenza.
Un mondo che si offre perché il poeta, direbbe Luzi, ne legga il leggibile, i segni, i suoi intervalli per tutti quelli che non osano farlo. «Questa sua fede nella poesia-poesia, una poesia che sia in grado di germinare – scrive Fernando Bandini – malgrado gli orrori del nostro tempo e l’ostilità della storia, ne fanno uno strenuo testimone del ruolo che la poesia ha avuto nella storia dell’uomo». Nonostante la complessità, in fondo, non c’è poeta più accogliente di Zanzotto ed è difficile non vibrare al suo canto: Mondo, sii, e buono/ esisti buonamente/fa che, cerca di, tendi a, dimmi tutto…
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