Il poeta Pierluigi Cappello racconta la sua vita

Il poeta sta scrivendo per Rizzoli un libro: «Sarà una biografia in forma narrativa in cui ci saranno i temi fondanti dei miei versi e anche quello che sono io»
Di Mary B. Tolusso

Prima di interrogarsi sul ruolo del poeta è necessario riformulare i termini in cui si dà poesia: che cosa è poesia per chi la fa. Ma può davvero il poeta darsi una identità che lo faccia essere tutt’uno con la sua scrittura? Domanda avvincente quanto insidiosa, tanto più se si tratta di un poeta come Pierluigi Cappello, che ha tolto ogni frontiera tra vita e arte: «Scrivere versi è coltivare con ostinazione e con cura il proprio fallimento – dichiara in un suo libro di riflessioni – portarne tutto il peso, non un milligrammo di meno». Ce n’è abbastanza per chiedersi se la poesia appartiene solo alla dimensione del simbolico.

Un tassello in più ce lo darà proprio Cappello con un libro autobiografico in forma di racconti, che uscirà per Rizzoli: «L’intenzione è quella di una sorta di biografia romanzata che investirà alcuni dei temi fondanti della mia poesia. E della mia vita. Come la cura, l’attenzione, la precisione». Alle spalle c’è il Premio Montale (2004), il Bagutta (2007), il Viareggio (2010) e molti altri riconoscimenti per opere quali “Assetto di volo” e “Mandate a dire all’imperatore” (editi da Crocetti). Ma soprattutto c’è un’idea di poesia che ha sempre declinato il verso a un’idea di resistenza, da un autore costretto su una sedia a rotelle dall’età di sedici anni, lui che correva i cento metri in undici secondi. Il poeta nato a Gemona nel 1967, vive ancora in uno di quei prefabbricati donati dall’Austria dopo il terremoto del 1976, a Tricesimo, attendendo il sostegno previsto dalla legge Bacchelli, ossia un vitalizio per gli artisti di chiara fama che versino in condizioni disagiate.

Sia chiaro che di tutto ciò troverete poco nei suoi versi, se non tradotto in metafora, nell’intensità di un mondo che, a tutti e in diverse forme, ci appare sempre mutilato: «La poesia contempla un aspetto privato, intimo, un bisogno personale – confida Cappello – che però diviene pubblico. Ecco allora una sorta di responsabilità tanto più grande quanto più raggiunge una dimensione collettiva, che riguarda tutti». C’è chi, come Montale, sosteneva che il poeta è una sorta di parafulmine della società, un uomo da stigmate insomma per l’eccesso del suo sentire. E c’è chi, come Wislawa Szymborska, non attribuiva nessun aspetto “scenografico” alla vita di uno scrittore in versi, puntando il dito invece su quel conformismo abitudinario che al poeta spetta di far esplodere. Due premi Nobel e due facce della stessa medaglia. Perché è vero che a un eccesso di sensibilità si può far fronte solo grazie a una lucida analisi del nostro stato di inadeguatezza. Ed è forse inevitabile che il poeta, occupandosi di simboli, finisca egli stesso per diventare simbolico. Capita a quei poeti che cantano l’impossibile fatica di circoscrivere la mancanza, il desiderio, la discrepanza tra il particolare e il tutto, la perdita. Ed è una sensazione precisa che ci assale quando il poeta si fa voce, riesce cioè a tradurre fisicamente la lacuna incolmabile del linguaggio.

Chiunque abbia assistito a una lettura pubblica di Pierluigi Cappello ha partecipato a questa sorta di evento fisico, lì dove la voce si traduce nei pieni e nei sospesi dei versi, nella vertigine di una metafora, nell’istantanea evocazione di una nuova forma di realtà, mai in un linguaggio a due dimensioni, ma nella tridimensionalità del corpo: «Il corpo entra nel merito della poesia come passione, ovvero come appetito alla vita», dice. Cappello lo spiega con chiarezza: «Questa volontà di entrare nell’altro, nel mondo, è cosa data. Un desiderio che ti porta inevitabilmente alla lettura, una circostanza che ti cambia la vita poco a poco». Cappello non è poeta da credere nelle folgorazioni: «Un trauma, qualsiasi trauma, non ha voce, è silenzio, pietra». Crede invece nello sguardo collettivo, in quel tipo di lettura e studio che piano piano aggiunge al tuo sguardo quello di coloro che ci sono stati: «Ecco allora che la voce non è più solo tua, ma è il frutto di una relazione». Certo la poesia non è solo oralità, suono, ma una mobilitazione di tutti i sensi e, secondo il poeta friulano, avviene concretamente nel momento in cui si prende un appunto e poi altri ancora che richiameranno quelli precedenti: «È un rammemorare istantaneo, veloce, fatto di sensazioni precise». A dirlo, con tale esattezza, è chi è stato costretto a rinunciare ad alcune percezioni fisiche, senza alcuna “folgorazione”, appunto, tanto più nella poesia che al di là della mitologia di cui amiamo investirla è fatta invece di precisione, accoglienza, acutezza di sguardo, vitalità, studio e rammemorazione: «Io ho scritto malgrado questa perdita, non in virtù di questa perdita – conclude infine Cappello – non sento più la pressione dei piedi sul suolo ma è una sensazione che ricordo. Grazie a questa rammemorazione nasce la precisione e l’esattezza del rievocare». Giusto per dire come nulla, in poesia, possa darsi nell’ordine dell’immediato. Come se ogni esperienza, al limite tutta la vita del poeta, rivendicasse il lavoro della memoria e della parola in un rilancio continuo alla ricerca di un simbolo sempre differito. Ma, per quanto sfuggente sempre pronto a incarnarsi, a farsi corpo nella voce del verso. E forse anche negli attesi racconti di questa autobiografia.

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