Il patriarca dei serbi Irinej difende il boia di Srebrenica
BELGRADO. Ogni sentenza del Tribunale penale per l’ex Jugoslavia è stata letta, nei Balcani, in modi opposti. L’occasione per unire tutti, probabilmente, poteva essere rappresentata dal caso Mladić, l’ex generale serbo-bosniaco condannato con solide prove all’ergastolo per il genocidio di Srebrenica e per gravissimi crimini contro l’umanità. Non è stato così. Lo conferma la controversa uscita del patriarca serbo-ortodosso Irinej, che ha commentato la condanna del boia di Srebrenica con il tabloid Alo. Lo ha fatto ricordando che «un altro serbo è stato condannato all’Aja» e «sapevamo che Ratko Mladić lo sarebbe stato». Una posizione simile a quella espressa dal presidente Aleksandar Vučić, che aveva parlato di giudizio atteso. Irinej ha poi però alzato subito i toni.
«Noi, per sfortuna, non possiamo fare nulla» contro quanto deciso dalla Corte, ha sostenuto Irinej, aggiungendo «che tutto quanto accade» è la conseguenza del comportamento «di grandi potenze mondiali, che compiono atti diabolici e noi ne patiamo le conseguenze».
“Opera del diavolo” come la condanna di Mladić, l’inevitabile richiamo di queste parole, condannato per una moltitudine di misfatti commessi, su suo ordine, dai suoi sottoposti a Srebrenica, Sarajevo e in decine di altre zone della Bosnia, durante il conflitto. Ma forse la lista dei crimini, contenute in 2.527 pagine di motivazioni della sentenza, pubblicate ieri, non era sufficiente, per il patriarca. Secondo il quale il caso Mladić sarebbe solo la punta di un iceberg. «Non è da ieri che succede che i serbi sono colpevoli per tutto, e gli altri innocenti» in un Tpi dove si condannano solo generali serbi, tutti gli altri vengono liberati, il punto di vista di Irinej. E l’unica soluzione, ormai, sarebbe quella di battersi contro «questa ingiustizia occupandoci di noi stessi, rimanendo uniti e forti e concordi», l’opinione riportata in un articolo significativamente intitolato “I diavoli hanno condannato Mladić”.
Parole dure, quelle di Irinej, che non hanno però generato contraccolpi in Serbia, anche se hanno avuto larga eco sui media dei Paesi balcanici, con Al Jazeera che, in un corsivo, ha bollato il patriarca come «l’avvocato del diavolo». Unica reazione forte, a Belgrado, quella del Partito liberal-democratico di Čedomir Jovanović, che ha condannato le parole di Irinej definendo con un post su Facebook - molto condiviso - il pensiero del capo spirituale della Chiesa serbo-ortodossa «profondamente disumano, privo di etica e di valori morali e cristiani». Ma ci potrebbero essere altre reazioni, più sotterranee, in un Paese secolare dove però - secondo un corposo studio del Pew Research Center - il 34% della popolazione dice che «la religione ha un posto molto importante». E il 51% dei giovani ha fiducia nella Chiesa, seconda solo all’esercito, secondo uno studio del 2015.
Meno preoccupato da dichiarazioni del genere è però l’attento analista Boban Stojanović. Irinej «manda messaggi del genere» in maniera frequente, «sul Kosovo, sugli interessi nazionali, sui serbi nei Balcani, non è un fatto spettacolare per noi, ci siamo abituati. E non penso possano esserci conseguenze pericolose» in una società che «ama la Chiesa, ma non chi la dirige ora». «Non è una dichiarazione che sorprende», gli fa eco il politologo Dejan Stanković, aggiungendo che la Chiesa ortodossa serba «è prevalentemente conservatrice, molto coinvolta nella politica e nelle guerre degli Anni Novanta e ragionevolmente scettica verso il Tpi».
Chiesa che «vuole proteggere i serbi e non presta attenzione alle vittime di altre nazioni, è ciò è sbagliato». Sbagliato, perché «certamente non contribuisce all’idea della riconciliazione nella regione». Ma va anche detto che quella di Belgrado non è un’eccezione. Altre istituzioni religiose nell'area hanno atteggiamenti molto simili. «Le guerre sono finite - chiosa l’analista Stanković - ma sono ancora presenti nelle teste delle élite e dell’uomo comune». In tutti i Balcani, non solo in Serbia.
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