Il parere dell'esperto del Censis De Rita: «Gli italiani fuori dal gioco ora sperano che ci pensi Draghi»

Il sociologo cofondatore del Censis: «Preoccupa vedere una società che non esprime la volontà di ripartire La popolazione ha mostrato grande responsabilità dinanzi al Covid, perfino troppa: essenziale è stata la paura» 
Giuseppe De Rita, sociologo, è presidente del Censis di cui è stato fra i fondatori
Giuseppe De Rita, sociologo, è presidente del Censis di cui è stato fra i fondatori

TRIESTE «Sì, abbiamo sopportato davvero tante cose: dalla chiusura dei bar alla sottrazione del rapporto sociale tra i giovani. Lo abbiamo fatto per paura». Giuseppe De Rita, sociologo, fondatore del Censis, vede un Paese «in soffitta», conseguenza anche «di come l’emergenza è stata comunicata». In un tempo «sospeso», in cui lo Stato «non ha mai detto con precisione che cosa sarebbe accaduto», in un contesto di «accentramento di potere che ha alimentato le incertezze», i cittadini «hanno mostrato grande responsabilità, perfino troppa».

De Rita, come stanno gli italiani che si vedono oggi affidati a Mario Draghi?

«Costretti a rispettare regole che li lasciano comunque fuori dal gioco, non sono sostanzialmente in campo. Non vedo una grande vitalità, al di là della speranza di tornare a girare per l’Italia e liberarsi delle restrizioni. Ma è un sintomo indiretto e ancora vago».

Che cosa la preoccupa di più?

«Vedere una società che non esprime la volontà di rimboccarsi le maniche e ripartire. Anche l’accettazione della figura di Draghi è in fondo un auspicare che ci pensi lui perché da soli non ce la faremo mai».

È lo stesso atteggiamento della politica?

«La politica ha fallito, e infine si è arresa, più che altro per la sua carenza di qualità».

Che cosa ci si aspetta dall’ex presidente della Banca centrale europea?

«Un intervento ordinato sul Recovery plan, un piano vaccinale adeguato, a costo di usare l’esercito, la risistemazione di settori pubblici andati al macero come la sanità e, ancora di più, la scuola. Non ci sono grandi ambizioni nell’italiano medio. Il riferimento a Draghi non è a un uomo forte, che chissà dove ci porta, ma a una persona che conosce i sistemi di governo ed è preferibile a quelli che non sapevano neppure dove stavano».

Tenderà ad accentuarsi la disaffezione verso la politica?

«Da oltre vent’anni la politica in Italia è una gestione separata rispetto alla società, è lo spettacolo di chi governa. Ci si può lamentare che hanno stufato, che non concludono nulla, che sono sempre le stesse facce, ma è disaffezione alle facce da talk show, non alla funzione della politica».

Su che cosa puntare per il rilancio del sistema Paese?

«Sono i singoli a doversi dare una mossa. C’è troppo gente in letargo che non se la sente di uscire di casa, che preferisce non lavorare, che si è disabituata all’impegno quotidiano».

Ci siamo disabituati anche al divertimento?

«Argomenti collegati. Il divertimento è il lavoro di milioni di persone che gestiscono bar, ristoranti, palestre, piste da sci. Sbagliato, su queste cose, mettersi in una condizione di moralismo».

Ha visto responsabilità nella popolazione in quest’anno di virus?

«Perfino troppa. L’elemento essenziale è stata la paura. Come è emerso nel rapporto Censis, ha vinto la logica del “meglio sudditi che morti”.

La paura di morire prima di quella di perdere il lavoro?

«La paura di prendere il coronavirus, andare in terapia intensiva e non poter respirare. Questa è stata la comunicazione sulla malattia. E ha fatto sì che si accettassero le regole del comitato tecnico-scientifico. Pur senza che ne fossimo convinti».

È la guerra di questo tempo?

«La guerra è stata più difficile, faticosa, drammatica. Dire che questa epidemia è una guerra è un’esagerazione retorica perché un po’ di retorica fa sempre comodo».

Dopo la vaccinazione, quanto dovrà passare per il ritorno a una vita “normale”?

«Anche su questo aspetto non è come un tempo di guerra che, una volta finiti gli spari, vede seguire un nuovo inizio. Qui siamo a un prolungamento della paura. Adesso ci sono le zone rosse, poi arrivano le varianti. Non si finisce mai. È un fenomeno in cui l’informazione basta e ogni affermazione è buona».

Pensa che ci si vaccinerà in massa?

«Mi pare di sì. Non vedo grandi quote di no-vax. È sempre la paura che spinge qualcuno a cercare di saltare la fila, ad arrivare al vaccino prima di averne diritto».

La pandemia ci ha divisi o uniti?

«Più uniti che divisi. Ci si salva tutti insieme o non ci si salva. La furbizia individuale, alla fine, non funziona».

Ma da Draghi ci si attendono anche maggiori libertà?

«Qualcuno forse se lo aspetta. Ma credo che per lui il tema sarà molto meno importante che per il governo precedente, che ha campato per mesi su lockdown e coprifuoco. Draghi lascerà fare ai ministri responsabili, eviterà il ruolo di presidente dei Dpcm. Non ce lo vedo proprio».

Giovani e anziani. Chi ne uscirà peggio?

«Senz’altro i giovani. Sono stati privati del compagno di banco, della gita scolastica, della scazzottata a fine lezione. Televisione, internet e social avevano già ridotto il rapporto fisico con gli altri, pure l’odio, la gara, la gelosia. Il coronavirus ha sottratto ulteriori spazi di socializzazione di base. Chiudere cinema, locali pubblici, calcetto ha dimezzato la capacità del giovane di sentirsi sé stesso. A farci uomini è la chimica del rapporto sociale, che ora non c’è».

Gli anziani?

«Hanno vissuto relativamente bene questa vicenda. La paura l’ho vista nei cinquantenni, nei sessantenni, meno nei giovani e meno negli ottantenni. Chi soffre sono invece gli anziani messi fuori dalle famiglie, nelle residenze, dove non vedono figli e nipoti. Lì scatta la vera tristezza. Il virus ha colpito nelle situazioni di fragilità, nel distanziamento sociale che viene dalla reclusione nelle zone di parcheggio». —
 

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