Il padre dell’agente Rotta ucciso in Questura: «Meran sapeva ciò che faceva: andava condannato»
TRIESTE Delusione, rabbia, senso di ingiustizia. E anche «odio», nei confronti dell’assassino di suo figlio.
Pasquale Rotta, il padre di Pierluigi, uno dei due agenti uccisi a colpi di pistola in Questura il pomeriggio del 4 ottobre 2019, non riesce a digerire la notizia che anche la Cassazione ha assolto il domenicano Alejandro Augusto Stephan Meran. Perché, secondo la magistratura, non era capace di intendere e di volere.
«Basta osservare come si è mosso nelle stanze della Questura per rendersi conto che sapeva benissimo quello che faceva», afferma Rotta. «Guardate le immagini... e ciò che ha fatto lo aveva premeditato». Rabbia e delusione, sì, ma il padre di Pierluigi, peraltro ex poliziotto, ormai si aspettava che il processo finisse così. «Era ben chiara la piega che aveva preso la vicenda... però sinceramente è mancata soprattutto un’altra cosa: un po’ di umanità da parte dei magistrati».
Era certo che il processo si sarebbe concluso con l’assoluzione?
«Sapevo già che sarebbe finito tutto così. Il caso ormai aveva preso una determinata piega, il processo tendeva verso l’assoluzione. Ormai ero preparato. Resta però l’amaro in bocca... anzi la rabbia. I magistrati hanno fatto il loro lavoro, però mi aspettavo qualcosa in più accanto a queste sentenze».
A cosa fa riferimento esattamente?
«Ci sarebbe voluta un po’ di umanità, un po’ di solidarietà da parte dei giudici. Questo è mancato. Cosa ci voleva a dire... “guardate, abbiamo giudicato in questo modo perché purtroppo questa è la legge, scusate, non è colpa nostra”. Quindi, oltre al mio personale senso di ingiustizia, non posso nascondere la rabbia e la delusione. Ma veramente, è proprio l’umanità che manca».
Come si sente adesso, signor Rotta?
«La perdita di un figlio è un lutto che non si può mai superare. Io ho dedicato la mia vita a Pierluigi: l’ho cresciuto in tutte le fasi della sua vita. L’ho accompagnato in tutto, in qualunque sua tappa importante, suo sacrificio. E ricordo la felicità quando era entrato in Polizia, perché anch’io sono stato poliziotto e da ragazzo avevo fatto il corso proprio a Trieste. Da un lato però ero anche ben consapevole della vita che avevo vissuto io e non volevo la stessa per lui. Per mio figlio volevo una vita migliore. Comunque Pierluigi si era distinto già nel suo corso, era arrivato secondo e quindi aveva scelto la sede di Trieste».
Cosa diceva di Trieste?
«Raccontava che si sta bene, che non c’era casino e che aveva trovato la sua dimensione. E quindi voleva rimanere lì».
Lei era contento della scelta?
«Sì, anche se era lontano da casa».
Tornando al tema giudiziario, all’indomani della sentenza di terzo grado che ha confermato l’assoluzione, che idea si è fatto di questo processo?
«Meglio che io stia zitto, guardi. L’assassino ha distrutto due famiglie e due intere comunità».
Nei confronti dell’assassino c’è un sentimento che riesce a focalizzare e a descrivere?
«Sì, ed è quello dell’odio nei suo confronti. Certamente odio. Sento rabbia, delusione e odio. Scusate lo sfogo... sono un papà che ha perso suo figlio e non ce la faccio a non dire ciò che penso e ciò che sento dentro di me. E veramente ho sofferto per la mancanza di umanità da parte dei magistrati. Comunque io credo che lui, Meran, fosse pienamente capace di intendere e di volere. Anche se il processo, con quelle perizie, ha dimostrato altro. Ripercorriamo quello che era successo: Matteo e Pierluigi avevano portato Meran con tranquillità e rispetto. Lo avevano fatto salire in macchina senza manette, libero. Nessuno gli aveva fatto nulla. Poi, in Questura, lui aveva chiesto di andare in bagno. Ecco... aveva carpito la fiducia dei due ragazzi per il suo intento criminale. Aveva premeditato tutto: a cominciare dall’aggressione in bagno, perché per togliere la pistola a mio figlio qualcosa deve essere successo lì dentro. Dopo aver sparato a mio figlio, è uscito e si è nascosto dietro un armadietto e ha sparato anche a Matteo che si era avvicinato a mio figlio a terra. Questa cos’è se non una premeditazione?».
Lei non crede che l’assassino di suo figlio sia una persona con patologie psichiatriche come emerso nelle perizie disposte durante il procedimento giudiziario, seppur con esiti contrastanti?
«No. Ripeto, sapeva benissimo quello che faceva e aveva premeditato la sua azione. Il processo è finito così... senza umanità. E chissà, forse c’è anche un fattore politico dietro. Chi lo sa. Poi c’è un’altra cosa che voglio dire: durante un servizio di polizia giudiziaria si esce in otto agenti e si rientra in otto. Dove stavano gli altri in quel momento? Nessuno ha mai dato risposte. Non si lasciano due ragazzi soli in auto con un individuo fermato. Non esiste proprio».
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