Il nuovo disco di Eddie Cat

Esce il cd del cantautore anglo-italiano “Empty fills”, presentazione dal vivo giovedì a Trieste e il 18 aprile a Roma

TRIESTE. Esce in questi giorni il cd del songwriter anglo-italiano Eddie Cat, “Empty Fills” (già in pre-ascolto su ReverbNation, Spotify, Deezer e in vendita su iTunes). L’album sarà presentato dal vivo giovedì alle 22 al Tetris di Via della Rotonda, a Trieste, e il 18 aprile al Contestaccio di Roma.

Edward Carl Catalini, in arte Eddie Cat, è nato a York nel 1972 ed ha girato il mondo sin dall’infanzia, dovendo seguire gli spostamenti di lavoro dei suoi genitori. Fino a fermarsi a Trieste, dove vive da più di dieci anni. Anche l’album è nato ed è stato registrato in città, alla Casa della Musica (Urban Recording Studio), co-prodotto dal cantautore assieme al produttore e sound engineer Fulvio Zafret. Il mastering è stato curato da Nick Watson a Londra. La band, su disco, include: il chitarrista di Parma Daniele “Big Bear” Morelli, i triestini Marco Seghene al basso e Marco Vattovani alla batteria. Dal vivo si aggiunge la chitarra di Mirco Biasutti.

Riempimento di vuoti/vuoto che riempie: “Empty Fills”. Anche se il titolo nasce da un modo di suonare la batteria (spiega Eddie Cat: «In studio avevo chiesto al batterista di fare dei lanci vuoti, rullate vuote, empty fills»), il richiamo ai vuoti simbolici (e non) da riempire nella vita è forte. È un disco di canzoni di un altro tempo perché, dice l’autore, «le canzoni che ancora oggi si ascoltano più volentieri sono quelle di una volta». Ogni brano racchiude un mondo a sé, con cambi di atmosfera, suggestioni, tono, velocità.

Un viaggio in cui ogni tappa ha un paesaggio diverso, tutto da scoprire: impossibile annoiarsi. Ci si può commuovere con «Do You Know How I Feel?», fare un pieno di energia con «Tell me», arrabbiare con «Stinky Boot» (dove lo “stivale puzzolente/marcio” non è altro che il nostro corrotto paese), muoversi al ritmo della Motown con «Hard Headed Girl», andare in fissa con il ritornello di «So Cruel». E ballare un lento con «Morning Whispers»: «È un brano molto alla vecchia, romantico. Di quando c’erano i balli di scuola e si aspettava il lento. Tempi che ho vissuto, in Etiopia e in Polonia, dove c’erano tante feste private nelle case. Dovevi veramente approfittare di quattro minuti, e magari esitavi, esitavi e prendevi coraggio quando il pezzo era finito! La canzone che aspettavamo era “Carless Whisper” di George Michael. Forse, non ci avevo pensato, ma ho messo “whisper” nel titolo per questo». Sottotraccia ci sono tanti riferimenti, frutto dei numerosi ascolti dell’autore ma sempre filtrati dalla sua personalità e così vari da non essere riconducibili ad un genere preciso: «Sono contento di questo insieme di pezzi diversi, che escono bene come singoli brani».

Sebbene ci siano delle escursioni impegnative nei territori più oscuri dell’anima («Loneliness» ne è l’apice, con uno struggente inserto di archi nel finale), se ne esce tuttalpiù con un velo di malinconia, mai di disperazione assoluta. Le ombre ci sono, Eddie se ne avvolge anche nelle foto di copertina e del booklet del cd. Ma la componente di luce è forte. Più che la luce della speranza, sembra di scorgere la luce della bellezza. Bellezza delle piccole cose, dei dettagli, della musica. L’idea portante è di fare un album scarno, suonato quasi esclusivamente da quattro elementi (Eddie Cat voce e chitarra, Morelli chitarre, Seghene basso e Vattovani batteria), con un utilizzo parsimonioso delle sovraincisioni (archi, cori, fiati, tastiere), cercando di non riempire troppo, di non cadere nel tranello degli artifici che poi dal vivo non si possono ricreare: «Se riempi troppo diventa stucchevole, stomachevole, ti annoia. Invece a metter poche cose ogni tanto, risaltano meglio».

Nei testi ci sono anche immagini ispirate a film o documentari che l’autore traduce e sottotitola per lavoro: «In ”Sometimes Life…” dico che c’è una data di nascita e una data di morte e la vita in mezzo a queste date è solo un trattino. L’idea mi è venuta dopo aver tradotto un documentario sulla pena di morte che segue la vita di due ragazzi, uno di 16 e uno di 18 anni, ricostruisce il caso ed intervista questi due condannati nel death row, in cella e li segue fino al giorno dell’esecuzione. Il testo di “Get The Boys Back Home”, invece, nasce da un documentario in cui ho scoperto che l’età media di chi combatteva la guerra in trincea era di 15 anni. Mi paralizza l’idea del terrore, non tanto del dolore fisico. L’idea del terrore mi ha sempre colpito molto più della morte stessa».

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