Il nuovo anno ci regali una scuola di veri talenti

Pier Aldo Rovatti

TRIESTE La speranza che vorrei condividere con i lettori è che questa notte, tra le cose vecchie (di cui ritualmente ci alleggeriamo), ci sia anche una scuola ormai appassita che vorremmo illuderci di far rifiorire. Una scuola che aveva come obiettivo quello di identificare, tra gli studenti, i portatori di un vero “talento” e di aiutarli a diventare l’élite dirigente del paese.

La butterei dalla finestra questa antica concezione che le nostre scuole siano essenzialmente incaricate di andare a scovare i “talentuosi dalla nascita”, coloro che hanno avuto la fortuna di venire al mondo con una dote che gli altri non posseggono: una scuola che dovrebbe esaltare un tesoro innato in alcuni già eletti magari ancor prima di venire al mondo, selezionare gli studenti che lo posseggono, vezzeggiarli, farli diventare consapevoli del loro talento, consegnarli alla società perché possano realizzare il protagonismo al quale erano destinati senza che lo sapessero, grazie a una roulette individuale che ha fatto uscire il numero fortunato.

Esagero? Anche molto recentemente personaggi di spicco del mondo dell’istruzione ce lo hanno ripetuto proprio in questi termini, “talentuosi dalla nascita”: mi sono stropicciato gli occhi quando l’ho letto, ho pensato che forse ero andato di fretta fraintendendo. No, invece è così, ancora adesso c’è chi pensa autorevolmente qualcosa (nientemeno che il senso stesso della formazione scolastica) che, da ingenuo quale sono, credevo morto e sepolto da anni, anzi da decenni: una specie di viatico rivolto dall’alto a tutti gli insegnanti laggiù in basso affinché dedichino il loro defatigante lavoro a un’attività di talent scout, appunto per far venire fuori il talento innato con una sorta di mix tra “provino” e insegnamento.

Ma quale è allora il mandato a cui la scuola dovrebbe corrispondere? È talmente evidente che non dovremmo neppure ripeterlo: compito della formazione sarebbe innanzi tutto quello di garantire a ciascuno pari opportunità, l’esatto contrario di una selezione tra capaci e incapaci, tra studenti da premiare e studenti da lasciare per strada (anche in senso letterale).

Pensiamo solo all’uso che si continua a fare del voto: nell’epoca dei registri elettronici, per dire del “tecnicismo” in cui stiamo navigando, DAD e tutto il resto, la potenza discriminante dei voti, con relative pagelle riassuntive, è rimasta tale e quale: divide, penalizza, discrimina, cioè punta soprattutto a selezionare e differenziare. Insistere nell’usare i voti di merito, tra l’altro senza una regola comune, ogni insegnante a modo suo, difficilmente può corrispondere a un gesto didattico socializzante che miri a ridurre le differenze tra gli studenti.

Stiamo tornando indietro? Storicamente, direi sulla scia del Sessantotto, si era passati da una scuola autoritaria e discriminante a una scuola meno chiusa, attenta anche agli studenti poco attrezzati (linguisticamente e culturalmente) che arrivavano nelle aule attraverso una pratica più generalizzata del diritto allo studio. In tale prospettiva molti (me compreso) hanno visto nell’insegnamento una chance di crescita personale che esigeva un impegno sproporzionato rispetto allo stipendio mensile.

Poi, e fino a oggi, molto o quasi tutto è andato evaporando. C’è chi ancora ci crede (e non sono pochi), ma siamo ormai costretti a sbattere la testa contro un muro (nel migliore dei casi, contro un muro di gomma), se vogliono tenere in vita la voglia di egualitarismo.

Oggi abbiamo piuttosto davanti agli occhi, anche per colpa o grazie alla pandemia, i pesanti ritardi della nostra scuola in fatto di spazi e strutture, cioè insufficienza delle aule e degli edifici: c’è da gestire la crisi della didattica in presenza che ne consegue, e un’ibridazione tra insegnamento dal vivo e lezioni virtuali che apre un mare di problemi. Sembra, insomma, che adesso proprio non abbiamo tempo né attenzione sufficiente per occuparci di come si insegna e di come l’insegnamento può garantire agli studenti le medesime opportunità. Tanto meno l’istituzione scolastica dovrebbe perciò pensare ai “talentuosi”. (Ricordiamoli a mezzanotte!).

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