Il Messico i suoi artisti a Trieste

A un secolo e mezzo dal viaggio della Fatal Novara, alle Scuderie di Miramare apre una mostra che esplora trent’anni del Paese centroamericano

Un grande progetto internazionale nato quasi in sordina e cresciuto come un fiume in piena. Era il 2010 che la mostra di Manolo Cocho al Museo Carà di Muggia gettava il primo ponte con l’arte contemporanea messicana. Ora “Mex Pro”, ambizioso progetto installativo che si svolgerà a Trieste nel corso del 2014 con successive espansioni nazionali e internazionali alza il tiro proponendo due grandi eventi: il primo, la mostra “Messico circa 2000”, che s'inaugurerà lunedì alle Scuderie del Castello di Miramare, esplorerà un trentennio di storia messicana interpretata attraverso l'arte, il secondo, che si preannuncia di grande impatto scenografico, sarà una mega-installazione dell’artista Alejandro Santiago che prenderà invece vita a fine agosto con “2.501 Migrantes”, 2501 statue di terracotta a simulare l'intero popolo di un villaggio che migrerà dal Messico all'Italia per “trovare asilo” direttamente in piazza Unità. Intorno, come satelliti, altre esposizioni a fare da collegamento tra l'uno e l'altro evento.

Una delle prime importanti mostre di arte messicana in Europa, “Messico circa 2000”: parola di Maria Campitelli dell’Associazione culturale triestina Gruppo78 che ha promosso il progetto e curato l'esposizione insieme a Fernando Galvez de Aguinaga, Gerardo Traeguez, Manolo Cocho, Marieta Bracho, Luca Caburlotto, Rossella Fabiani e Lucia Krasovec Lucas. Location e data d'inaugurazione, lunedì 14 aprile, non sono state scelte a caso: la mostra approda in uno dei luoghi simbolo di Trieste, le Scuderie di Miramare, da dove quello stesso giorno di 150 anni fa Massimiliano d'Asburgo salpava alla volta del Messico a bordo della Fatal Novara. Un sito, quindi, particolarmente significativo per quanto riguarda gli storici rapporti tra Trieste e il Messico.

Novantuno le opere presentate, 81 gli artisti, un'unica scultura. Qualche disegno, alcune fotografie ovviamente analogiche ma «le forme espressive saranno classiche, le tecniche principalmente l'olio e l'acrilico», avvisa la curatrice. Niente videoarte o performing art «dal momento che è più facile che un collezionista si orienti sull'oggetto quadro».

Perchè è da una collezione privata che la mostra proviene: quella di Josè Pinto Mazal, re dello zucchero, imprenditore ai vertici dell'economia e innamorato dell'arte. Seguendo il suo personalissimo gusto ha imbastito una collezione di più di 2000 opere che documentano la realtà messicana fatta di grandi contrasti, di enormi ricchezze e di favelas, di confini e narcotraffico. Un modo di procedere piuttosto «inedito e comunque diverso dalla maggior parte dei collezionisti – spiega la curatrice - nella raccolta di opere magari più astratte e metaforiche dove però si avverte la volontà d'interpretare il mondo circostante attraverso l'arte».

Alla passione di Mazal c'è da aggiungere anche un invidiabile fiuto per scovare artisti semi-sconosciuti che di lì a poco sarebbero divenuti famosi o l'apertura verso autori non messicani trasferitisi lì per un periodo di lavoro per rimanerci poi tutta la vita. «Come nel caso del ru. sso Boris Viskin, colpito da una natura ammaliante dove tutto è all'eccesso dei cromatismi, con un senso di esplosione che si può riscontrare anche nel paesaggio umano, vista l'apertura e la disponibilità dei suoi abitanti».

Il paesaggio messicano, ricco di contrasti, unisce alla floridezza della flora anche estese parti inghiottite dal deserto e ciò ne fa uno dei leit motiv della mostra. Non a caso l'immagine simbolo dell'esposizione è proprio “L'angelo del deserto”, da una delle più grandi fotografe messicane, Graciela Iturbide. «È una delle più forti componenti del paesaggio e soprattutto della forma mentis di molti artisti». Vedremo quindi l'interpretazione di Demian Flores, noto anche come importante grafico, di cui sarà esposta una pittura imponente fatta di colori caldi e figure umane, «personaggi strani, quasi metafisici, di cui uno completamente nero». Sulla stessa linea, Manolo Cocho con le sue palme opera una lettura più o meno deformata attraverso gli impulsi del deserto, e non è a caso che Torreon, il luogo da cui provengono gran parte delle opere, si trovi in mezzo al nulla.

Paesaggi contrastanti saranno quelli di Eric Perez di cui saranno presentate due opere, un paesaggio lacustre da cui si sprigiona, in maniera del tutto inconsueta, «un fuoco che nasce dall'acqua, opera di magia e attrattiva uniche», sottolinea Campitelli. Una libertà che non si ritrova minimamente nell'altra sua opera presentata, sempre surreale ma antinaturalistica, con una cattedrale sullo sfondo sovrastata da architetture, che dà un senso di impossibilità, costruzione, soprattutto di chiusura e pesantezza.

Altro fil rouge è il forte senso della morte che pervade le opere e sembra quasi impresso nel dna degli artisti. Una concezione della morte antitetica a quella del mondo occidentale, intesa invece come «un anello della vita, allo stesso modo in cui in natura non è momento conclusivo ma piuttosto trasformazione. Se si pensa alla festa dei morti, a novembre, la definizione non può cadere più appropriata: è davvero una festa, piccoli scheletri sono appesi ovunque in un'atmosfera giocosa e tutt'altro che funerea. Uno spirito fondato su una cultura della morte risalente alle civiltà azteche, maya e altre meno note, dove il sole nasceva se era imbevuto di sangue umano e i sacrifici erano quotidiani». È per questo che il motivo del teschio comparirà più volte nel percorso della mostra, interpretato in più maniere.

Altra caratteristica che accomuna gran parte degli artisti, rileva ancora Campitelli, è l'attingere «a uno spessore culturale rilevantissimo, un'enorme apertura a informazioni e conoscenza». A partire dallo stesso Cocho, che oltre a essere pittore è scienziato, e tra le sue eclettiche produzioni figura un libro di immagini attraverso il quale spiega la teoria del caos o i quanti. O Daniele Romero, che studia le nanotecnologie: ma non sono linguaggi diversi, spiega la curatrice, «è proprio con la pittura e la visualità che cercano di raccontare la scienza». Jerman Venegas s'ispira all'universalismo buddista e anch'egli oggi è notissimo: una delle sue opere più conosciute è una rielaborazione da “La punizione di Marsia” di Tiziano. Da quella ha poi prodotto una novantina di opere, dove la pittura diventa strumento di conoscenza. «C'è una sorta di spiritualizzazione attraverso cui le opere via via si depurano, decantano, fino a diventare quasi evanescenti. Sempre e comunque da laici, riescono a percepire quel di più: c'è sempre un qualcosa di misterioso e oscuro che immettono nelle loro opere».

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