Il messaggio di pace del Vescovo di Trieste: «Il mondo è in città. Non abituiamoci a guerre e dolore»

Il monito verso la Via Crucis di venerdì, animata dai giovani dell’Azione cattolica. «Ci stiamo impegnando per risolvere i conflitti a casa, nel lavoro, nella Chiesa?»
Gianpaolo Sarti
Il vescovo di Trieste Trevisi. Foto Bruni
Il vescovo di Trieste Trevisi. Foto Bruni

TRIESTE Forse sembrerà strana, o quanto meno inusuale, la Via Crucis cittadina di quest’anno. Perché se è vero che ognuno di noi, ça va sans dire, porta la sua croce, è altrettanto vero che c’è una buona parte del mondo – con le sue guerre, terrorismi e miserie – che soffre di più. «Il fatto – osserva con voce pacata il vescovo Enrico Trevisi – è che a Trieste il mondo ce l’abbiamo in casa».

È con questo sguardo che venerdì sera, a partire dalle nove, monsignor Trevisi guiderà la “Via Crucis cittadina”, animata dai giovani dell’Azione cattolica diocesana, da piazza Vico a San Giusto. E se lo sguardo sarà improntato su una dimensione internazionale, non mancherà un pensiero, un messaggio, che vuol essere una carezza, alle piccole e grandi sofferenze individuali. «Le nostre croci», appunto.

«Viviamo in una società individualista e lamentosa», spiega il presule nel testo preparato per la Santa Pasqua e che accompagnerà il Triduo. Una società «triste, per la competizione continua in cui ci si svilisce in consumi effimeri. Assuefatti al tentativo di distrazione di massa, mentre fuori il mondo va a pezzi: la guerra imperversa, le coppie si dividono, l’inverno demografico avanza, la tragedia delle tante persone sole. Spaventati di fronte al futuro occorre ripiegarsi su qualche successo precario: la carriera, il benessere individuale, le vacanze esotiche… Tutte soluzioni palliative – scandisce il vescovo – sabbie mobili che rinchiudono nella solitudine. Sempre meglio della depressione che invece inchioda e paralizza nelle nere diagnosi di tanti commentatori. Il depresso è come un vigile urbano – sottolinea ancora citando Alda Merini – sempre fermo sulla sua catastrofe. Gesù è il Dio che si è fatto uomo: carne, per dire vulnerabilità, finitezza. La Pasqua ce lo mostra come il calunniato, l’offeso, l’escluso, l’umiliato. L’ucciso. Ma poi si rialza. È vivo. È risorto. Non è venuto a condannarci, ma a rialzarci. A farci risorgere a vita nuova».

Monsignor Trevisi, quale impronta intende imprimere alla Via Crucis cittadina, la sua prima da vescovo di Trieste?

«La Via Crucis, coordinata dall’Azione cattolica, coinvolge nella preparazione dei testi anche i giovani della città di diversa estrazione e provenienza. Comunque il senso di fondo è questo: non abituiamoci al fatto che ci siano così tante guerre».

Cosa intende dire?

«Non può esserci un’assuefazione per cui alla guerra ci rassegniamo e prima o poi capiterà anche da noi. L’impegno e la compromissione per la pace io li sento molto forti. Siamo in una terra, Trieste, in cui sto sentendo ancora tante ferite del passato. E le sento maggiori rispetto alla mia terra di provenienza, la Lombardia».

Perché sente l’esigenza di far partire questo messaggio di pace da Trieste?

«In questi mesi sono entrato nella confidenza di tante persone e ho letto anche pagine di storia che non conoscevo, da cui mi sono reso conto che di generazione in generazione passa il dolore. Talvolta è elaborato e purificato e non si rimane nella gabbia del risentimento, ma tuttavia rimane ancora per i torti subiti. Mi chiedo quanto tempo ci vorrà per Israele e Palestina, piuttosto che per Ucraina e Russia. Ma pensiamo a Siria, Iran, Afghanistan, Congo. In questa Via Crucis i giovani hanno provato a immedesimarsi nelle persone che vivono la loro Via Crucis in diverse parti del mondo, oppressi dalla violenza e dall’ingiustizia. Intendiamo entrare nei panni di chi sta subendo questo: ciò rappresenta una compromissione nostra per invitarci a chiederci, personalmente, che uomini e donne siamo. Ci stiamo impegnando per sciogliere i conflitti anche nelle nostre vite e nelle nostre famiglie? O nel lavoro e anche nella Chiesa?».

Sarà quindi uno sguardo generale che poi si cala sulle nostre vite individuali.

«Da tre mesi abbiamo aperto il dormitorio in via Sant’Anastasio, in cui ci sono persone di varie nazionalità. Con le loro sofferenze, le loro storie. Questo ci fa capire che il mondo ce l’abbiamo in casa. Non ci entra solo attraverso la televisione. Il Pachistan, l’Afghanistan, l’Iran, la Turchia, la Siria, la Nigeria, sono i Paesi di queste persone che passano, transitano qui e chiedono di essere accolte. Non possiamo pensare di guardare soltanto alla nostra città, quando la nostra città è sulla rotta balcanica, è un ponte verso l’Est. Ed è sempre stata così: Trieste è un porto dove sono arrivate, con le navi, da sempre, persone da altre parti del Mediterraneo. Popoli che qui si sono incontrati. Ma non dimentichiamo i problemi della città: aziende che chiudono, anziani soli, le difficoltà delle famiglie... però dobbiamo essere attenti agli altri mondi. E ai piedi della Croce guardiamo al mistero di un Dio che ha scelto di umiliarsi per noi. Guardando il Crocifisso sappiamo che possiamo arrogarci il diritto di un gesto di fraternità, di tenerezza, di perdono, verso chi abbiamo accanto».

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