Il generale triestino in Kosovo: nel Paese fatti molti progressi, preoccupa l’economia

Parla Michele Risi, da poco alla guida della missione Nato nell’area: «La Kfor continua a sostenere il dialogo fra Belgrado e Pristina» 
Il generale Michele Risi, triestino nato nel 1965, guida la Kfor, la missione Nato in Kosovo
Il generale Michele Risi, triestino nato nel 1965, guida la Kfor, la missione Nato in Kosovo

TRIESTE Orgoglio, per essere stato nominato a capo della Kfor, la missione Nato - quella in Kosovo - «più longeva» di tutte, «una storia di successo per l’Alleanza e i suoi partner» e soprattutto per l’Italia, che da sette anni ne detiene la guida. Fiducia nel futuro, perché il Kosovo a vent’anni dalla guerra ha compiuto notevoli progressi. Ma anche qualche preoccupazione, in particolare per lo stato dell’economia e un obiettivo: sostenere il dialogo tra Belgrado e Pristina promosso dalla Ue. Sono i sentimenti che animano il generale di divisione Michele Risi, triestino, una lunga carriera nelle missioni di pace e stabilizzazione, dal Mozambico all’Afghanistan, da qualche settimana in Kosovo come 24.o comandante in capo della Kfor, una forza di 3.500 militari di venti membri della Nato e otto partner.

Generale, quali sono oggi i fronti critici sul fronte sicurezza in Kosovo?

La regione sta affrontando diverse sfide. La sicurezza è la risultante di fattori politici, sociali ed economici. Questi ultimi sono forse tra i più sensibili, dal momento che il tasso di disoccupazione è del 35% e riguarda specialmente i giovani. La gente qui è preoccupata principalmente dall’economia. E la mancanza di risposte politiche in questo ambito rischia di ripercuotersi anche sulla sicurezza.

Quanto è importante nel 2019, a vent’anni dalla guerra, la presenza di truppe Nato in Kosovo?

La presenza militare della Nato in Kosovo è gradualmente diminuita nel tempo, a riprova del miglioramento complessivo della situazione dal punto di vista della sicurezza, ma non solo. Kfor oggi esprime una presenza capillare sul terreno grazie ai team di collegamento e monitoraggio, gli occhi e le orecchie della missione. A queste si aggiungono poi unità con funzioni di sorveglianza e deterrenza. In termini di risposta nella gestione di eventuali crisi, Kfor costituisce il terzo livello di un sistema che vede come primo attore la polizia del Kosovo e in seconda battuta la missione dell’Unione Europea, Eulex.

E quale è il bilancio di questi vent’anni di presenza della Nato nell’ex provincia serba?

Un bilancio positivo che va iscritto nell’impegno vasto della comunità internazionale. Vent’anni fa le scene che si pararono davanti ai primi soldati di Kfor furono di devastazione, sofferenza e disordine, con enormi vuoti di sicurezza, rapidamente colmati dalle forze della Nato, sviluppando un livello di presenza sul territorio e di deterrenza che ha generato un clima di sicurezza reale. Una condizione grazie alla quale si sono sviluppate istituzioni che mano a mano hanno avviato un processo di normalizzazione.

Pensa che oggi siano ancora possibili esplosioni di violenza come quelle del 2004?

La sicurezza in Kosovo è da considerare in chiave regionale. Per la gestione di eventuali crisi, oggi si può contare su un dialogo continuo che Kfor intrattiene in ambito militare con tutte le nazioni confinanti, compresa la Serbia. Parliamo di una cooperazione trasparente e costruttiva. Ovviamente la presenza di Kfor in Kosovo rimane il più importante fattore di deterrenza.

Il nord del Kosovo, a maggioranza serba, resta un’area delicata, dove le truppe Nato sono a volte viste con ostilità. Come valuta lo stato delle cose nell’area?

È una zona dove la nostra presenza sul campo è continua, come nel resto del Kosovo. Da un lato con le pattuglie condotte dalle unità e dall’altro attraverso i team di collegamento e monitoraggio di Kfor. Nascono così opportunità di dialogo, di conoscenza e anche di collaborazione, come testimoniano i numerosi progetti realizzati da Kfor a sostegno delle comunità e delle autorità locali, dalle quali abbiamo di recente ricevuto un notevole apprezzamento.

Il Kosovo è stato in passato uno dei bacini più importanti di reclutamento di foreign fighters e jihadisti, molti ritornati in patria. Il fenomeno rimane un problema?

È un problema di portata globale, che ha interessato e interessa tutta l’Europa. A livello locale, le istituzioni del Kosovo responsabili per la sicurezza lavorano autonomamente ma in collaborazione stretta con la missione Eulex e Kfor. La presenza congiunta sul campo è utile anche per monitorare il fenomeno possibile dei rientri.

Pristina ha dato luce verde alla trasformazione della Kosovo Security Force (Ksf) in esercito regolare, malgrado l’ostilità di Belgrado. Come legge questo passo?

La Nato ha chiarito che dovrà riesaminare il livello di cooperazione con la Ksf, a seguito del processo avviato dalle istituzioni in Kosovo, che prevede una transizione di durata decennale. La questione continuerà ad essere oggetto di consultazioni tra gli Alleati e con tutte le comunità del Kosovo. Ma voglio precisare che la decisione presa dalle autorità kosovare non ha avuto alcun impatto sul mandato Onu di Kfor, che continua a garantire sicurezza e libertà di movimento. E a sostenere il dialogo tra Belgrado e Pristina. —

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