Il futuro? Una società senza più egoismi
di Arianna Boria
Condividere: spazi, alimenti, idee, lavoro. Scambiare: oggetti e servizi. Recuperare i materiali riciclabili. Tagliare gli sprechi. E creare reti per distribuire i pesi dell’assistenza a malati e anziani, là dove lo Stato non arriva. Comportamenti impensabili negli anni del Grande Individualismo, che ci ha fatto perdere il senso dello stare insieme, e che oggi riscopriamo non solo per risparmiare, ma soprattutto per trarne energia, idee, solidarietà. La crisi economica planetaria sta cambiando il nostro modo di comportarci e di rapportarci agli altri. Davanti a molti verbi, quelli che in passato segnavano il trionfo dell’«io», oggi c’è il prefisso «co»: co-housing, co-working, e-co-abitare. Ci sta anche il “co-ltivare” insieme un orto, da New York a Roma, trasformando i grattacieli in “grattaverdi” in nome della tutela dell’ambiente co-mune, dei prodotti sani a chilometro zero e del piacere di co-struire qualcosa a più mani.
. Antonio Galdo, giornalista e scrittore, nel suo libro “L’egoismo è finito. La nuova civiltà dello stare insieme” (pagg. 110, Einaudi, euro 12) ha raccolto molte storie che testimoniano un cambiamento già in atto e l’affermarsi di nuovi modelli sociali, dalla strada alla fabbrica, passando per abitazioni, giardini, reti informatiche. Ecco come ce li racconta.
Possiamo dire che questa Grande Crisi ha prodotto almeno un risultato positivo: il ridimensionamento dell’”io” e il ritorno al “noi”?
«La Grande Crisi, impietoso detonatore di un cambio d'epoca, marca la fine di un paradigma, di un pensiero unico. Per decenni abbiamo fatto dell'egoismo, in tutte le sue declinazioni, la bussola della nostra civiltà e ci siamo illusi di costruire un benessere attraverso la moltiplicazione delle pulsioni individuali. E siamo finiti nel tunnel, dal quale adesso stiamo uscendo. In questo senso l'egoismo è finito».
Da quanto durava questo ciclo?
«L'Italia ha vissuto un paradosso: abbiamo cancellato le comunità, in grado di comporre l'innato individualismo di un popolo. Eppure il salto nella modernità lo avevamo fatto proprio grazie a questa grande energia dello stare insieme: la famiglia, la fabbrica, la parrocchia, il partito, l'associazione. Da qui dobbiamo ripartire e, rispetto ad altri paesi, abbiamo il vantaggio di giocare in casa, di conoscere la forza che arriva dalla comunità».
Il “noi” comincia dall’urbanistica, dalle città costruite intorno all’aggettivo “smart”. Che cosa significa?
«Stiamo attraversando un ripensamento dello spazio urbano, dove sono cresciute separatezza e solitudine. Anche grazie all'uso delle nuove tecnologie, possiamo vincere l'egoismo metropolitano. La città è un bene di tutti, e renderla intelligente, smart, significa innanzitutto condividerla. Pensiamo, per esempio, alla mobilità: automobilisti, motociclisti, ciclisti e pedoni, hanno uguali diritti e possono convivere, senza un conflitto permanente e senza prevaricazioni reciproche. Questo è il futuro».
L’ingegnere visionario Monderman, urbanista olandese, diceva che bisogna tornare al villaggio. Lei è d’accordo?
«Assolutamente. Il villaggio significa riscoprire il piacere dello stare insieme. Significa non sentirsi soli, sapendo che, come diceva Aristotele, “non si può essere felici da soli”. E le città italiane, dal Rinascimento in poi, sono state pensate e costruite proprio come dei villaggi. Anche questo è un vantaggio per uscire dal tunnel dell'egoismo».
E poi condividere la sicurezza significa meno costi umani e sociali...
«Nel libro racconto di alcune città dove ormai è stato collaudato lo “spazio condiviso”. In pratica, non esistono semafori, segnaletica, marciapiedi, ma solo zone condivise, dove circolare insieme. Bene: le statistiche dicono che in questi luoghi la sicurezza è aumentata e gli incidenti sono diminuiti».
Anche nella sua Napoli si stanno sperimentando spazi condivisi. Un bel risultato per una città che ha così tanti problemi urbani...
«Mancavo da Napoli da molto tempo, e quando ho visto il suo lungomare affollato di biciclette, monopattini e pedoni a passeggio ho pensato soltanto una cosa: i napoletani si sono ripresi il loro spazio, sono tornati padroni del mare che li circonda. Ed è stata una bella scoperta».
E il co-housing? Un ritorno alle comuni anni ’70?
«No, sono due cose assolutamente diverse. Il co-housing non è una scelta ideologica, non è uno slogan da “sol dell'avvenire”: é una soluzione razionale per potersi permettere una bella casa, con un terrazzo, una lavanderia, una sala per le cerimonie e una serie di spazi da condividere con gli altri abitanti. Ovviamente, per vivere insieme dobbiamo rinunciare all'egoismo delle risse condominiali. E in Italia siamo arrivate al punto di scatenarne una ogni 15 minuti...».
Anche quella degli orti urbani sembrava un po’ una moda “radical chic”. Invece?
«Anche questa non è una scelta ideologica o la moda di qualche ricco borghese metropolitano. È una nuova tendenza che riguarda strade, case e grattacieli. Un italiano su tre coltiva l'orto e non lo fa certo per una scelta di moda. Piuttosto ha la consapevolezza che con l'orto si migliora l'estetica di un luogo e si contribuisce a stare, tutti insieme, in un ambiente migliore. Il benessere di una società passa per queste scelte condivise».
La crisi ci ha ri-portato alla civiltà del baratto?
«Anche questo è un cambio di paradigma, che coinvolge milioni di uomini e donne attraverso l'uso del web. Scambiano tutto, costruiscono comunità, fanno nascere relazioni. E insieme scoprono che non abbiamo sempre bisogno di strisciare una carta di credito».
Si scambiano anche le idee e questo può diventare una forma di grande, nuova ricchezza...
«Ho assistito in America alle conferenze di Ted (Technology, entertainment and design, massimo 18 minuti, ndr). È un'avventura unica: con pochi soldi puoi condividere una scoperta, un'invenzione, una scommessa imprenditoriale. Insieme si scavalcano le montagne, e si realizzano sogni che da soli diventano impossibili».
La fine dell’egoismo ci porta all’economia civile, a un nuovo welfare. Cos’è?
«Senza quello che io chiamo lo stato sociale dal basso, costruito in una singola fabbrica, in una singola comunità, la Grande Crisi in Italia sarebbe stata molto più pesante. Il nuovo welfare è, ancora una volta, ispirato all'idea di riscoprire la forza di una comunità, e di offrire per esempio al lavoratore sostegno per i figli, asili nido, buoni per la spesa, assistenza medica non coperta dal servizio sanitario nazionale. In Italia abbiamo 800mila vittime dell'Alzheimer: senza la rete delle famiglie, senza il welfare dal basso, sarebbero abbandonate, con le loro famiglie, al loro destino. E lo stato non paga un euro».
Il suo è un manuale della felicità o della sostenibilità?
«È un libro sull'amore. Su quella parte di noi, di ciascuno di noi, che ha bisogno dell'altro, di una relazione che unisce laddove la solitudine separa. Ed è un libro ottimista, perchè la fine dell'egoismo ci aiuterà tutti a uscire più forti e in tempi più brevi dal buio della Grande Crisi».
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