Il frastuono e il silenzio: la musica diversa della Barcolana
La Barcolana è un’abitudine o è un colpo al cuore? È entrambe le cose. C’è chi la conosce da sempre, onda per onda, pur consapevole che ogni edizione è diversa per i capricci del vento e del cielo, che governano la giornata. Ma c’è anche chi deve fare i conti con il proprio stupore, chi ha sentito tanto parlare di lei ma impatta con questo evento incredibile solo ora, solo questa volta, finalmente. Di questa ennesima edizione dai numeri estremi restano proprio queste differenze, gli opposti diametrali, le coppie di idee distinte. La gara e la festa. La bolina e la poppa. La vela di chi gareggia e il motore di chi guarda. Poi, il suono. Soprattutto il suono.
La musica della Barcolana è il frastuono quasi insopportabile delle rive e del centro, la folla che ti spinge; è il dazio che si paga alla massa, è grigliate e bevute e altoparlanti, il delirio delle canzoni sparate, le notti frantumate da decibel selvaggi. Brinda, urla, canta, stringi mani: fai festa o sei fuori gioco. Ma allo stesso tempo è la liturgia del silenzio, l’alba dei ritocchi agli scafi e alle vele, l’arrivo quasi mistico di milleottocento barche su una linea di partenza invisibile, senza far rumore, con le persone concentrate sui propri atti. È un lungo sussurro collettivo, un rito da consumare sottovoce mentre una città si sveglia e attende. Fino a cosa? Fino a un colpo di cannone.
Chitarra elettrica e arpa, neon e pastello: le rive sono lo stadio di un concerto rock, il mare della domenica mattina è la preghiera in una chiesa o il rispetto di un teatro di prosa. È questo spettro sonoro uno dei messaggi che la Barcolana scrive sull’acqua di Trieste, fino alla prossima volta, fino alla prossima storia. —
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