Il doppio volto della guerra fra censura e foto dal fronte

Dietro a ogni fotografia c’è un fotografo. Ma bisogna fare chiarezza tra le immagini che rappresentano la Grande guerra. Va immediatamente separata la fotografia ufficiale, gestita dagli Stati Maggiori e dai loro Uffici di censura e propaganda, dalle immagini realizzate invece da chi ha addosso la stessa divisa ma vuole raccontare autonomamente le tragedie delle trincee in cui è stato forzatamente immerso dopo l’arruolamento. Il primo gruppo di immagini, assieme ai settimanali che le hanno pubblicate - Domenica del Corriere, Illustrazione italiana, Tribuna illustrata - sono sempre funzionali alla promozione dello sforzo bellico e della “buona” causa nazionale. La guerra deve apparire mitica, sacra e allo stesso tempo cruenta nella misura necessaria per tenere acceso l’odio e il risentimento verso il nemico.

Il controllo del racconto della guerra prodotto attraverso l’immagine fotografica, è infatti parte integrante del controllo esercitato dagli Stati per evitare gli effetti destabilizzanti del conflitto sulle famiglie dei combattenti e su quella che oggi viene definita “opinione pubblica”. Chi gestisce il potere sceglie cosa far vedere e cosa nascondere. Le fotografie realizzate autonomamente da singoli soldati e ufficiali sono invece destinate a un uso poco più che familiare e sono entrate, se sfuggite ai controlli della onnipresente censura, a far parte di una memoria collettiva racchiusa in vecchi album, scatole di cartone, cassetti e bauli. Molte sono anche migrate, a partire dagli Anni Cinquanta sui ripiani di esposizione dei mercatini di oggetti usati. Ora fanno parte di collezioni pubbliche e raccolte private e costituiscono una fonte preziosa per gli storici.

Questa presenza è direttamente collegata alle innovazioni tecniche che hanno aumentato esponenzialmente all’inizio dello scorso secolo la diffusione degli apparecchi fotografici. La produzione in serie di fotocamere a prezzo contenuto e di facile uso, così come la catena di montaggio della Ford “T”, ha aperto nuovi mercati, ha tolto il monopolio della rappresentazione ottica a un ristretto numero di professionisti dell’immagine. “Ogni ufficiale e soldato dovrebbe provvedersi dell’apparecchio fotografico Vest Pocket Kodak: col suo piccolo formato e minimo peso può essere comodamente portato in una tasca della divisa, senz’alcun disturbo” si legge nella pubblicità in cui compare la figura di un alpino, il fucile in spalla, la baionetta fissata al cinturone e la fotocamera in mano.

Le immagini realizzate con questo e con tanti altri apparecchi portatili divennero durante il conflitto un elemento di comunicazione tra fronte e Paese. Un elemento che in qualche modo rompeva il monopolio esercitato sull’immagine e sul suo uso da tutti i Governi impegnati nel primo conflitto di massa della Storia europea. Una guerra totale, in cui la fotografia era anche un’arma che doveva sostenere lo sforzo dell’industria, sollecitare la sottoscrizione di prestiti allo Stato, rassicurare i cittadini sulla prossima, certa, vittoria. Per questo motivo lo Stato maggiore italiano. organizzò a partire dai primi mesi di guerra un Servizio foto - cinematografico in cui furono inquadrati 600 militari che produssero nel corso del conflitto 150 mila lastre e pellicole che documentavano la vita di reparti al fronte, comandi, retrovie, fabbriche impegnate nella produzione di cannoni e munizioni. Solo qualche migliaio di queste immagini poterono essere diffuse. Per le altre, la stragrande maggioranza, mancò l’autorizzazione. Troppo crude, troppo vere, troppo laceranti. La stessa linea di condotta fu adottata dal Comando dell’esercito asburgico. «La produzione, il controllo e la distribuzione delle immagini fotografiche – scrive lo storico Lucio Fabi nel suo libro “La Prima Grande Guerra” - erano funzioni demandate al Kriegspressequartier, istituito nell’agosto del 1914 per coordinare le diverse attività della propaganda. Numerosi fotografi anche “dilettanti” vennero mobilitati all’interno di questa struttura che aveva tra i suoi compiti pure quello di controllare la corrispondenza dei soldati e la redazione di bollettini, articoli e comunicati - stampa da inviare a giornali e riviste». Una rilettura di questa intensa attività consente oggi di affermare che i Governi volevano che la guerra fosse rappresentata in forma asettica, senza che le fotografie mostrassero i cadaveri di soldati e, più in generale, senza che fosse rappresentata l’oscenità della “non vita” di chi era costretto in trincea.
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