Il Covid-19 vissuto da New York a Gorizia: una ricercatrice racconta la sua esperienza
GORIZIA «Mi trovavo in America per condurre un progetto di ricerca sponsorizzato dal Dipartimento di Stato. Doveva durare sei mesi, e la sede di svolgimento era la Stony Brook University di New York. Dopo meno di tre mesi, sono rientrata in Italia su uno dei voli Alitalia garantiti dalla Farnesina per il rimpatrio degli italiani durante l’emergenza coronavirus».
Federica Bressan, goriziana, ha fronteggiato il Covid-19 oltreoceano e nella nostra città. Approcci e strategie completamente diverse ma con medesimo obiettivo: sconfiggere un nemico oscuro e temibile. «Ai primi di marzo non era chiaro dove fosse meglio stare, perché in Italia era già partito il lockdown, mentre in America la situazione era normale, all’apparenza. Mi sembrava impossibile che una città come New York venisse colpita: è difficile immaginare di fermare la città che non dorme mai. Speravo che il virus avrebbe risparmiato gli Stati Uniti».
Ma, poi, «ho ricevuto il messaggio di un collega tedesco, anche lui al lavoro a New York. Il giorno prima, di punto in bianco, era tornato in Germania. Non so perché ma mi sono fatta influenzare dalla sua scelta. Ho iniziato a leggere notizie online. C’era chi diceva di affrettarsi a rientrare perché, forse, avrebbero chiuso i confini. Impulsivamente, ho acquistato un volo da New York per Venezia, con scalo a Roma. Per 490 dollari. In realtà, non ero sicura di aver fatto bene: c’era chi diceva che ero matta a tornare in Italia, essendo il Paese più colpito in Europa in quel momento. Non avevano tutti i torti».
Ma anche a New York iniziava a salire la temperatura della preoccupazione. «Ho visto persone “assaltare” i supermercati, inclusa la carta igienica che era diventata introvabile. Stavano scomparendo anche il pane e le patate. Mentre la sezione ortofrutta era intatta». Il viaggio di rientro in Italia è stato, paradossalmente, il momento più rischioso per un eventuale contagio. «Non ho mai temuto per la mia salute a New York. Abitavo sola - racconta Federica Bressan - e, quando uscivo, era facile mantenere le distanze. Ugualmente in Italia, nonostante la situazione fosse grave, contavo che sarei stata al sicuro nella “mia” Gorizia. Ma non pensavo che il viaggio (era la fine di marzo, ndr) mi avrebbe esposta al rischio di contagio in modo traumatico. Non tanto per il personale dell’aeroporto che, comunque, non aveva compreso la gravità del rischio e non rispettava la distanza di sicurezza (l’agente che ha aperto la mia valigia ha storto il naso quando gli ho chiesto di cambiarsi i guanti prima di toccare il contenuto della valigia), ma per il volo stesso. Quando hanno aperto l’imbarco, c’è stata la classica calca verso la porta, e sono inorridita: e la distanza di sicurezza? Ho provato repulsione nel salire sull’aereo, ma ho dovuto farmi forza. Stessa cosa per il volo Roma-Venezia. Pieno».
Il fatto che, bene o male, tutti avessero la mascherina non ha tranquillizzato la ricercatrice goriziana perché tra mascherine chirurgiche, da carpentiere, da snorkeling o quelli esagerati con la maschera antigas, non ce n’erano due uguali. E, poi, tutti continuamente a toccarsi o togliersela per parlare e mangiare. «Sul volo Roma-Venezia il servizio bar è stato sospeso “per motivi di sicurezza”, mentre sul collegamento New York-Roma sono stati normalmente serviti i pasti e le bevande - ricorda ancora -. Arrivata a Venezia, ho trovato una manciata di persone in attesa agli arrivi in un aeroporto, altrimenti, deserto. Controllo le navette per Mestre, ma alla fine opto per una macchina a noleggio. Guido da Venezia a Gorizia senza incontrare nessuno fino ai dintorni di Gorizia, dove qualche mezzo invece circola. Nessun posto di blocco».
Scatta immediata la quarantena, già ampiamente terminata, senza accusare fortunatamente alcun sintomo. «Alla fine, ho fatto bene a tornare? Benissimo. Dal mio rientro, le notizie dall’America sono peggiorate di giorno in giorno. Manhattan è entrata in lockdown la sera del mio arrivo a Gorizia. Pochi giorni dopo, sono apparse le foto dell’ospedale da campo in Central Park. Allora è vero: si può fermare anche la città che non dorme mai. Le notizie terribili che arrivano mi lasciano sgomenta. Tornare è stata senz’altro un’ottima idea, ma l’ho capito solo dopo. Speriamo invece che la città “che dorme sempre”, Gorizia, si svegli e riprenda la vita molto presto».
E adesso? «Mi fermo qui in città per qualche mese, o finché non sarà possibile riprendere l’attività di ricerca all’estero. In piena sicurezza». —
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