Il cortocircuito mediatico sui vaccini

Le morti in relazione temporale con la somministrazione del vaccino di AstraZeneca hanno mandato in tilt quel poco di razionalità che era rimasto nella comunicazione
Mauro Giacca
Il vaccino Astrazeneca (Silvano)
Il vaccino Astrazeneca (Silvano)

TRIESTE È stata una settimana da record negativo quella scorsa in Italia per quanto riguarda l’informazione. Le morti in relazione temporale con la somministrazione del vaccino di AstraZeneca hanno mandato in tilt quel poco di razionalità che era rimasto nella comunicazione: titoli strillati in prima pagina, allarmismi senza fondamento, aneddotica a go-go hanno ispirato stampa, social e televisione. Che gli italiani attuali siano più inclini all’arte e alle lettere che alla scienza è cosa evidente: nonostante Galileo, Golgi e Fermi, siamo oggi decisamente a disagio quando si parla di virus, vaccini o nuove terapie. Ma che anche i grandi mezzi di informazione del paese continuino a non distinguere tra i semplici concetti di coincidenza temporale (due eventi accadono indipendentemente ma nello stesso tempo) e di causa-effetto (un evento è causa dell’altro) non ce lo aspettavamo. In assenza di competenze scientifiche (i giornali continuano a non riuscire a distinguere tra “vaccino” e “siero”) e in un momento così difficile per il paese, il minimo sarebbe stato che la comunicazione assumesse almeno toni sobri e moderati. Ecco allora tre considerazioni facili su come evitare errori comuni nella comunicazione.



Primo: l’errore del falso bilanciamento. Una delle peggiori pratiche del giornalismo è quello di contrapporre evidenze quantitativamente diverse per il gusto del confronto. Se 11 milioni di persone vaccinate in Gran Bretagna non hanno avuto la trombosi mentre 1-2 casi di trombosi sono stati osservati in Italia dopo il vaccino, quale è la probabilità che queste ultime siano state assolutamente casuali e non legate al vaccino stesso? I danni prodotti dall’instaurare un dubbio nella popolazione sono incalcolabili. Quando negli anni’60 del secolo scorso era finalmente cominciata ad affermarsi la percezione che il fumo giocava un ruolo nefasto sullo sviluppo del carcinoma del polmone, le aziende del tabacco avevano emanato una circolare riservata che suggeriva un obiettivo di comunicazione specifico: semplicemente quello di instillare il dubbio (“il dubbio è il nostro prodotto” era il loro mantra dei tempi). Non riuscendo per evidenti motivi a confutare il dato evidente che il fumo causa il tumore, l’unica arma che avevano era quella di confondere le acque. Il buon giornalismo deve evitare esattamente questo: pesando l’evidenza dei dati, e non considerando due tesi contrapposte come necessariamente degne di essere ugualmente presentate.



Secondo: la reputazione ha un peso. Nella scienza, non tutte le opinioni sono uguali (in realtà, neanche in politica visto il disastro che ha fatto l’uno-vale-uno, ma questo è un altro discorso). Una delle prassi peggiori del giornalismo è quello di mettere a confronto tesi opposte senza bilanciarne l’autorevolezza. Come allora valutare il peso di quanto viene detto? Semplicemente guardando alla posizione della persona che lo dice nel contesto della comunità scientifica. Se uno scienziato che ha pubblicato centinaia di lavori scientifici nella propria carriera, citati da decine di migliaia di articoli di altri colleghi e molti dei quali su riviste di alto impatto (come Nature, Science o il New England of Medicine) fa un’affermazione, questa ha molta più probabilità che sia corretta. Dove trovare queste informazioni? Molto semplice, nei database in internet. PubMed contiene tutte le pubblicazioni biomediche, Scopus, Google o Isi le citazioni di ciascun articolo e un parametro (l’H index) che dà un metro del peso di un ricercatore nella propria carriera.



Terzo: la cultura dell’aneddoto. La nostra mente ha due componenti, una evolutivamente antica, alla base del nostro cervello e l’altra più recente e razionale, nella corteccia cerebrale. In condizioni legate alla sopravvivenza, è la prima, quella delle scelte istintive, che continua ad avere il sopravvento. Quando eravamo cacciatori e raccoglitori nella savana (soltanto 10mila anni fa, un tempo brevissimo in termini evolutivi), non avevamo statistiche a disposizione, ma credevamo al nostro compagno di tribù per sapere se un frutto era velenoso o se c’era un animale feroce nei paraggi. Il nostro cervello è rimasto lo stesso: quando si tratta di scelte che riguardano la nostra persona, siamo più impressionati dalla storia raccontata dal vicino di casa che al grafico che vediamo su un libro. Non importa se l’evidenza medica su centinaia di milioni di bambini dimostra che non esiste un nesso tra vaccinazioni e autismo, rimaniamo comunque colpiti dalla storia della mamma con un bambino diventato autistico subito dopo una vaccinazione (solo un nesso temporale, evidentemente). In questo senso, il buon giornalismo educa a utilizzare la corteccia cerebrale e a guardare i grafici, il cattivo giornalismo intervista la mamma del bambino. La scorsa settimana, anche sui principali quotidiani nazionali, ne abbiamo viste a iosa di interviste a persone vaccinate. A che scopo? Risultato di tutto questo? Che migliaia di persone non si sono presentate all’appuntamento che avevano per vaccinarsi. Non siamo organizzati per vaccinarci in massa, non abbiamo sufficienti vaccini, non li stiamo producendo. Che anche la disinformazione contribuisca ad acuire il problema proprio non ce lo meritiamo. —

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