Il congedo di Garufi a Trieste: «Cultura e residenze in Porto vecchio»

Lo spostamento del punto franco ultimo atto del prefetto prima della pensione. E sui profughi: «Eredità pesante»
Il prefetto Francesca Adelaide Garufi
Il prefetto Francesca Adelaide Garufi

TRIESTE Se ne sta là, dietro a quattro metri di scrivania nero lucido, un po’ rigata per colpa delle graffette, piena di carte e fascicoli. A fianco la finestra brilla sole e mare, quello del Molo Audace freddo d’inverno. Sopra un enorme quadro di San Giusto che, potesse, lo porterebbe a casa per ricordo. Il prefetto tutto fare Francesca Adelaide Garufi ha avuto in mano la città per qualche anno.

Porto, profughi, Silos, Serracchiani, Cosolini. Le botte all’Ausonia, le mazzate a colpi di mocio in Barriera, il social-pugile Tuiach con i “richiedenti sicurezza” sotto l’ufficio, il finto pestaggio incastra-profughi in Stazione. Garufi va in pensione tra qualche giorno. Guai a chiederglielo, ti stende con una lezione sulla legge Fornero, più che intrattenerti sugli hobby che l’attendono in ciabatte e vestaglia.

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Francesca Adelaide Garufi

Meglio parlare di Porto Vecchio e del documento per spostare il punto franco che firmerà in queste ore: l’ultimo atto del suo mandato. Meglio parlare della città, «gloriosa in passato», ma sfortunata oggi. Ai margini, dice in sostanza lei che ha fatto da cerniera con lo Stato. È un venerdì pomeriggio e la Prefettura in piazza Unità, più che un palazzo della pubblica amministrazione, sembra il set di un film appena girato. Vuoto, silente. Sotto che si fuma la sigaretta c’è il capo di Gabinetto Roccatagliata, il braccio destro di Garufi in questi anni. Un poliziotto all’ingresso, un’impiegata al piano sopra.

«Ueh, c’è qualcuno di là?», s’informa la prefetta a intervista conclusa, urlando in corridoio come si fa quando si rincasa. Lei che l’aplomb da altro funzionario della pubblica amministrazione l’ha perso un’unica volta. Era mezzogiorno del 24 luglio dell’anno scorso. All’Ausonia facevano a botte, ai Topolini imbrattavano gli scogli, in Viale si prendevano a colpi di bastoni. Garufi, sempre di corsa, trotterellava da una riunione all’altra e giù, in piazza Unità, i portuali manifestavano. Il chiasso si sentiva fin nel suo ufficio. «Se n’andassero a quel paese quelli là!».

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2015, TRIESTE, ITALY. The Port of Trieste. © FABRIZIO GIRALDI

Dopo tre anni di servizio che lettura dà di questa città? Bella per come si presenta. Il mare dona una suggestione che pochi hanno. Trieste gode dell’eredità di un passato nobile e glorioso, è un grande pregio. È una città magnifica anche per i suoi abitanti: ciò che mi ha più colpito è passeggiare per il centro e sentire parlare lingue diverse, che non sono come quelle dei turisti a Roma. Ma di persone che abitano qui o di qua ci passano.

Quali criticità ha notato? Trieste resta ripiegata sul suo passato e i suoi strascichi storici. Ha perso centralità. L’Italia l’ha riconosciuta, sognata e voluta. Ma poi non l’ha valorizzata.

La scommessa per il futuro si gioca sul fronte mare. Tra poco lei firmerà lo spostamento del punto franco dal Porto Vecchio. Che significato ha? Lo spostamento è frutto di un percorso maturato in più classi sociali che vedevano come un vulnus questa spaccatura, in un pezzo di città inutilizzata e chiusa. Adesso Trieste può riappropriarsene. Finora mancavano le convergenze, ora ci sono grazie alla norma che ha consentito lo spostamento di un regime doganale da un posto all’altro.

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Quali benefici porterà? Senza quel regime si perde un’opportunità: il regime di porto franco con agevolazioni in fatto di tasse doganali, stoccaggi senza pagare il dazio. Nel Porto Vecchio, sviluppato nell’800, questa opportunità è restata poi inutilizzata, tanto che già prima della Seconda Guerra mondiale molti traffici si erano spostati altrove. Ora tutto questo potrebbe ripartire per incrementare movimentazioni e arrivi.

Più in generale, che sviluppo si attende per il Porto Vecchio? È un’area molto estesa per la quale è difficile immaginare una funzione unica. Un utilizzo culturale o museale, ad esempio, regge per città ben più grandi capaci di assorbirlo e valorizzarlo. Penso quindi a più destinazioni, un posto che dovrà essere abitato dalle persone, gente e commercianti. Una zona attrattiva per i triestini. Ci vorrà tempo e serviranno infrastrutture.

Quanto periferici siamo per lo Stato? Lo Stato ha sempre avuto una giusta considerazione, ma la città difetta di centralità. Trieste è un centro grosso ma soffre della mancanza di territorio intorno. In passato la perdita di alcuni fattori di sviluppo, come la Zona B, è stata compensata con investimenti in attività come il parco scientifico, o risorse apposite come il Fondo Trieste, finanziato fino al 2009 con una quantità di soldi che lascia allibiti. Però la città non ha sfruttato a dovere queste opportunità, si è adagiata senza farsi venire grandi idee e non ha preteso infrastrutture. C’è un aeroporto vicino ma non tanto, mancano collegamenti veloci con il resto d’Italia e Europa.

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Profughi. Che eredità lascia? Il fenomeno non diminuirà, lascio un’eredità pesante a chi prende il mio posto. Ma l’accoglienza diffusa funziona. In Fvg solo 60 comuni su 216 danno ospitalità. A dire il vero 50, secondo gli ultimi calcoli. La Regione aveva indicato un’accoglienza in tutto il Fvg: i Comuni hanno condiviso la linea, ma molti solo a parole. Hanno prevalso le resistenze dei territori impauriti dal diverso. Se questa ondata fosse stata distribuita, tutti avrebbero avuto una quota modesta. Negli ultimi 4 mesi, comunque, abbiamo trasferito oltre 800 persone. Il ministero ha attuato un’operazione di alleggerimento dei numeri, che comunque restano notevoli.

Lascia una città sicura? Non solo. Poiché non ci sono fatti emergenziali derivanti da ordine pubblico, le forze dell’ordine riescono a occuparsi a fondo anche dei piccoli reati. Siamo riusciti a scoprire anche uno che ha fatto finta di essere stato picchiato dai profughi. Certo, nessun segnale va trascurato, come i casi di violenza di quest’estate. Ma ricordo che una delle risse era a colpi di mocio… E pensiamo al fenomeno dei writers: abbiamo preso i colpevoli e coinvolto le famiglie.

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