«Il cinema non è solo film ma un vero rito collettivo e il Paese ne ha bisogno»
TRIESTE. Buio e silenzio che calano di colpo in platea. Milioni di pixel che prorompono a cascata sul maxischermo, mentre voci e colonne sonore filtrano dalle casse a svariati decibel, creando una bolla acustica da cui sottrarsi è impossibile. Tutte reminiscenze che suonano familiari a chiunque sia andato al cinema, quando ancora era normale e possibile farlo. Ossia prima che la pandemia costringesse il governo a varare diverse misure.
Tra cui quella che ha decretato la chiusura dei luoghi di cultura, considerati evidentemente meno necessari di tante altre attività tornate operative, dai negozi ai ristoranti. «Il ragionamento fatto da palazzo Chigi e dai tecnici è stato questo: i luoghi di cultura non sono posti essenziali e che bisogna per forza tenere aperti – esordisce Mario de Luyk, che da molti anni tiene le redini dell’Ariston di Trieste -. Io, ovviamente, non posso essere d’accordo. Non dopo aver passato gran parte della mia vita e della mia carriera al cinema».
Era infatti il lontano 1978 quando de Luyk decise di rilevare per pochi soldi la struttura di viale Romolo Gessi, puntando su un settore che molti davano per morto. «La cultura del cinema sopravvisse allora e resisterà anche a questo periodo storico. C’è speranza per il futuro, un futuro che io immagino caratterizzato da un potenziamo del cinema d’essai, considerato fino a qualche tempo fa un fenomeno di nicchia ma che negli ultimi anni ha visto un aumento del pubblico - continua de Luyk con una voce da cui traspare un sincero ottimismo -. Fellini diceva che la fruizione perfetta di una pellicola è quella sul grande schermo di una sala buia, frequentata anche da persone sconosciute, con le quali si condividono sentimenti ed emozioni, pianti e risate. Una visione collettiva che non si può ottenere in nessun altro luogo».
Non tutte le voci del settore, tuttavia, condividono questo atteggiamento di speranza volgendo lo sguardo al domani. È il caso, per esempio, di Giorgio Maggiola, che a Trieste gestisce il più grande circuito di proiezioni cinematografiche. «Abbiamo avuto la sfortuna di avere un ministro dei Beni e delle Attività culturali che non sta dalla nostra parte – afferma Maggiola -. Lo si intuisce anche dalle misure economiche prese dal governo, che sono un nonnulla se paragonate a quanto fatto in Germania, dove al settore è stato messo a disposizione l’80% del fatturato dell’anno precedente. Ma adesso è presto per calcolare i danni. Ci renderemo conto più avanti se la gente avrà o meno la spinta a tornare a godersi i film in sala».
Coronavirus e restrizioni non sono l’unico ostacolo da tenere in considerazione quando si immagina una reale ripartenza. A rendere più vulnerabili gli interessi di coloro che hanno in mano le sale di cinema è anche la concorrenza di piattaforme come Netflix, Amazon Prime, Disney Plus. Realtà attraenti che nei mesi di lockdown sono entrate ancor più capillarmente nella quotidianità delle persone chiuse tra quattro mura. «I fondi stanziati dal governo sono stati importanti. Credo che i cinema, in quanto contesti economici, non ne risentiranno particolarmente – sostiene Thomas Bertacche che, al cinema visionario di Udine, si era attrezzato già da giugno con dei divisori tra una postazione e l’altra -. Sono invece più assillato da un altro dubbio: riuscirà la cultura del cinema a reagire alle piattaforme digitali che garantiscono offerte con cui è davvero complicato competere?».
Difficile dirlo. Soprattutto ora, che non ci sono troppi motivi per credere che i luoghi di cultura riapriranno dopo la scadenza del Dpcm di dicembre, fissata per metà gennaio. «Oggi (ieri, ndr), è domenica, la giornata in cui, per eccellenza, si va al cinema. In un contesto normale sarei lì, a parlare con il pubblico. E invece non si può. E la cosa mi manca tremendamente - ammette Daniele Terzoli, presidente della Cappella Underground, storico Cineclub che gestisce la sala d’essai dell’Ariston -. La cosa assurda è che i cinema, insieme ai teatri, sono i luoghi di minor contagio».
L’esecutivo ha infatti ribadito che la chiusura è connaturata non tanto al pericolo, quanto alla necessità di ridurre gli spostamenti. «È un’esigenza su cui non voglio polemizzare. Ma bisogna ricordare che sono spazi sicuri – conclude Terzoli, sottolineando un punto su cui tutte le voci coinvolte si trovano d’accordo – . Rimandare continuamente le aperture di sale e teatri potrebbe trasmettere al pubblico il messaggio opposto».
L’industria del cinema, però, non si alimenta solo di sale piene e di proiezioni in sicurezza. In questi mesi, sono stati gli stessi produttori ad aver messo in standby i loro progetti, per attendere tempi migliori, come spiega Giuseppe Longo, della Kinemax Gorizia e Monfalcone: «Il problema è stato acuito anche dalla mancanza del prodotto. I distributori hanno iniziato a far slittare i film sempre più avanti, a data da destinarsi. Eppure io sono fiducioso. Nei mesi futuri sarà dura riprendere, ma bisognerà farlo per forza. Il cinema non è soltanto film. È un rito collettivo, un incontro sociale di cui non si può fare a meno».
2. - continua
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