Il caffè a Trieste fra storia, economia e cultura

L’evoluzione sociale e urbanistica della città a seguito della crescita nell’Ottocento delle importazioni dei preziosi chicchi

Vienna, 1683: il Gran visir dell'Impero ottomano, Kara Mustafa, fugge con il suo esercito dalla capitale asburgica grazie all’intervento delle armate di rinforzo. I turchi, stremati dall'assedio, si abbandonano a una ritirata disorganizzata, lasciando davanti alle mura di Vienna tende, armi, viveri e bottino. E tra quel bottino anche sacchi di caffè.

Il turco kahve (tradotto come “vino” o “bevanda eccitante”) affascinò il palato austriaco al punto da cominciare ad essere importato in grandi quantità nell’impero. Gli aromatici chicchi venivano trasferiti in Europa da Alessandria d'Egitto, e il porto più adatto a conciliare, con la sua posizione, realtà orientali e occidentali era proprio quello di Trieste.

Così il porto franco divenne (e rimane ancora oggi) uno dei principali centri europei di importazione del caffè. Nell’Ottocento, a seguito della costruzione della ferrovia (1857) e di quello che oggi è chiamato Porto Vecchio, la lavorazione dei chicchi si espanse assieme allo sviluppo tecnologico della città, al punto che, alla fine del secolo, Trieste vantava la presenza di 66 ditte di importazione, quattro aziende, dieci torrefazioni e 98 botteghe del caffè.

Oggi la città sembra ancora offrire, nelle strade e nelle caffetterie del centro storico, quell'atmosfera “aromatica”, un tempo condita di intellettuali e portuali, di borghesi e prostitute, che incarnava la “scontrosa grazia” cantata da Saba. Infatti i caffè, come luogo di aggregazione politica, culturale e ideologica divennero testimoni della commistione di nazionalità e culture che andavano in cerca di uno spazio nel porto asburgico.

I tipi di caffè e i clienti che ospitavano erano i più disparati. Tra i più noti all’epoca il "Caffè Greco" che riuniva mercanti e commercianti greci, turchi o provenienti dall'area orientale del Mediterraneo e dai territori controllati dall'Impero ottomano, il "Caffè Flora" (divenuto poi "Nazionale"), situato a palazzo Pitteri, che di giorno era un ritrovo per i coristi del teatro Verdi e di notte per la clientela più proletaria di Cittàvecchia, il "Caffè Corso", a palazzo Salem, punto d'incontro di attori, filodrammatici, cantanti e vari artisti del varietà, compresi prestigiatori, illusionisti, mangiafuoco e dilettanti in erba. E ancora il "Caffè Vesuvio", all'angolo tra il Corso e via Imbriani, frequentato da un gruppo di sordomuti che giocavano a domino tanto quanto evitavano di spendere, costringendo il proprietario a trasformare il locale in una tavola calda, e il "Caffè alla Miniera" di via del Pesce, luogo di ritrovo di loschi personaggi ben conosciuti nelle carceri vicine, tenuto d'occhio dalle autorità.

Tuttavia Trieste è molto più celebre per quei caffè che, ispirandosi al modello viennese, rappresentavano luoghi privilegiati per gli strati sociali più elevati: fra questi il "Caffè Garibaldi", il "Caffè degli Specchi", il "Caffè Stella Polare", il "Caffè San Marco", tutti centri attorno ai quali orbitavano grandi letterati, irredentisti e intellettuali dell'epoca, quali Italo Svevo, Umberto Saba, James Joyce, Franz Kafka, Giani Stuparich, Scipio Slataper, Marco Lovrinovich e molti altri.

Questi luoghi di aggregazione divennero gli spazi in cui i triestini erano capaci di ritrovare una piccola frazione di sé, di sentirsi parte di una comunità culturale o ideologica, oppure di scoprire semplicemente il valore della convivenza. Saba dedica una delle sue poesie più vibranti al "Caffè Tergeste" (oggi "Tergesteo"), che apostrofa come “caffè di ladri, di baldracche covo”, eppure in quell'angolo della sua popolosa città, in un caffè capace di conciliare “l'italo e lo slavo”, il poeta ci dice “io soffersi ai tuoi tavoli il martirio,/lo soffersi a formarmi un cuore nuovo”.

Veronica Sincovich

II A

Liceo Dante Alighieri

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