Il boato, il silenzio e quei mille morti sotto le macerie

Il 15 settembre una nuova distruttiva scossa, quasi un colpo di grazia. Ma la reazione più forte: potere ai sindaci sotto la guida di Zamberletti
Il sisma in Friuli del 1976
Il sisma in Friuli del 1976

di LIVIO SIROVICH

Un boato, come un'onda che ti scaraventa per terra. Tutto che balla. Grida, paura, crolli, polvere dappertutto, che ti acceca, che ti entra nei polmoni. Decine di migliaia di friulani non dimenticheranno quella sera del 6 maggio. Telefoni muti e comunicazioni interrotte. Niente Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza, Esercito. Funzionavano solo le radiomobili dei Vigili del fuoco, delle auto di Polizia stradale e Croce rossa, e quelle dei radioamatori e della banda cittadina. Circa mille morti.

Come ripartire dal mare di macerie a cui erano ridotti i centri storici dei paesi dell'Alta pianura friulana? Ci voleva un commissario con ampi poteri e la scelta cadde sul quarantaduenne ragioniere Giuseppe Zamberletti, di Varese, sottosegretario all'Interno del governo Moro (e, come scrisse La Stampa, radioamatore esperto di spionaggio e collezionista di modellini di mezzi corazzati, come Francesco Cossiga).

"SuperýZamb", come qualcuno lo ribattezzò, si rivelò presto uomo intelligente e di polso. La macchina dei soccorsi e della ricostruzione doveva fronteggiare una situazione da far tremare le vene ai polsi: oltre 50.000 definitivamente senzatetto, danni per almeno 1800 miliardi di lire, 31.000 case danneggiate, l'industria colpita al 50%, con 6.000 operai senza lavoro.

Molti temevano che si ripetesse lo scandalo della Valle del Belice, l'area della Sicilia occidentale colpita nel 1968 in cui i soldi avevano preso mille rivoli, ricostruendo poco e male, compresi edifici e monumenti anacronistici. Come nella nuova Gibellina, tirata su a 25 chilometri dal paese originario, tagliando così le gambe ai contadini che non potevano piu raggiungere i loro campi a dorso di mulo.

Quanto alla vecchia e pittoresca Gibellina - chissà cosa avevano fatto di male i gibellinesi... - si pensò di dare carta bianca all'artista Alberto Burri, che la sommerse con una colata di calcestruzzo per farla somigliare a una gigantesca distesa di fango disseccato, percorsa da crepe come appunto i "famosi" cretti di Burri. “Googelare” per credere. Oggi è tutto inaccessibile invaso dai rovi.

Nella distesa di macerie di alcune zone di Venzone e di Gemona era perfino difficile individuare le particelle catastali. Super-Zamb cercava di fare in fretta e non si poterono evitare casi di demolizioni indiscriminate. A Venzone, pregevoli particolari architettonici medievali, comprese due bifore protoromaniche, con uno stipite raffigurante un principe, furono usati per riempire un fossato (in parte recuperati nel 1982 a cura del Comitato cittadino "8 marzo").

Un ponte aereo con gli USA consentì di montare circa 20.000 tende in 252 aree. Qualcuno sperava di fare il salto dalle tende alle nuove case, ma Super-Zamb e i suoi capirono che occorreva la fase intermedia dei prefabbricati. Nel settembre del 1976, quando ne stava iniziando l'installazione, arrivò il secondo terremoto del 15 settembre. Terribile.


Crollarono molte case ancora agibili. La gente era disperata. Pareva non esserci davvero speranza. A quel punto, il commissario riprese le redini della situazione, arrivando a requisire alberghi e case vacanza lungo la costa, dove furono accolte oltre 32.000 persone. Circa 15.000 che non potevano allontanarsi dalle aree colpite vennero sistemate in oltre 5.000 roulottes, parecchie delle quali a loro volta requisite. Va detto che, in alcuni casi, contro i proprietari che facevano ostruzionismo, Zamberletti impiegò la Forza pubblica. Nonostante tutto, fra ottobre e novembre circa 3600 alunni poterono riprendere la scuola in 196 aule prefabbricate.
Come accade spesso in questi casi, anche il Friuli venne “invaso” da veri e falsi volontari, che offrivano aiuto, ma cercavano anche di accaparrarsi consulenze e incarichi. Semi-giovani architetti si intrufolavano nei disastrati uffici tecnici comunali per convincerli a spazzare via il vecchiume e lasciarli apporre il segno della loro arte adottando per la ricostruzione quel certo loro “rivoluzionario” latero-vetro-cemento, che li avrebbe resi immortali.
Famoso il caso di uno che si presentava alle dolenti e tormentate assemblee dei terremotati indossando una specie di uniforme militare di sua invenzione, agitando rotoli di elaborati fantasmagorici e straparlando di “magnitudine” dei terremoti (magnitudo M, ndr) e di fantasiosi effetti delle scosse.
In sede tecnica, ci fu anche chi ventilò lo spostamento permanente in nuove cittadine lungo l’asse Udine-Pordenone.

Un pericoloso visionario propose di suggellare le macerie di Venzone con una gran cupola di plastica. Che si ispirasse a Christo? L'artista uno e bino (sono due coniugi) della land-art che incappucciava palazzi? O a quell'archistar che, dopo il terremoto del Belice, si era sognato di “congelare” quel che restava della chiesa madre di Menfi e della torre di Federico II in due specie di cubi di mattonelle gialline?
Incavolatissimi, nell'agosto 1977, i venzonesi “giustiziarono” i novisti sfegatati con una petizione popolare plebiscitaria: "Cumò vonde! Rivogliamo il nostro paese dov'era e com'era!".
E fu in mezzo a questa confusione che prese comunque forma una soluzione ragionevole. In seguito, qualche volta con eccessiva enfasi, lo chiamarono il "modello Friuli".

Si partì da una consapevolezza e da una paura. La consapevolezza che le situazioni più disastrate da affrontare erano assai diverse, che c'erano centri storici molto caratterizzati (la Venzone medievale), con straordinari capolavori artistici (Gemona), o solamente un tessuto viario antico (Osoppo); che c'erano villaggi minacciati da frane o altre situazioni specifiche.
Gli ingredienti del modello furono: poteri ministeriali a Zamberletti, responsabilizzazione dei sindaci, senso di appartenenza alla comunità e tanti terremotati-muratori che si rimboccarono le maniche. Ed è in parte vero che si scelse di ricostruire prima le fabbriche, poi le case e solo dopo le chiese più danneggiate.

Italo Calvino si sbilanciò a scrivere che «i responsabili politici lavorarono unitariamente»senza badare, per una volta, alle tessere. In realtà, è inutile negare che gli appalti edilizi vennero lottizzati politicamente. Solo che gli approfittatori furono abbastanza pochi. Un unico sindaco finì in galera e per una tangente modesta. Erano ancora tempi di finanza allegra, ma almeno i soldi servirono a costruire case sane e resistenti e la comunità tenne botta.

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