I Viz: quel senso dell’umorismo di Trieste che rimane un mistero per i forestieri
TRIESTE Fine anni Ottanta. Una copisteria vicino all’Università. Ero in coda per fare le solite trecento fotocopie, quando ascoltai due anziani chiacchierare (gli anziani a Trieste si trovano anche in una copisteria universitaria: «Ieri sera ho visto giocare Austria e Ungheria»; e il suo compare: «E contro chi giocavano?». Fumavano sigarette pestilenziali (all’epoca si poteva fumare ovunque) e quando si misero a ridere, il sobbalzare delle spalle fu così violento che la cenere si sparse sul pavimento, a indignare il titolare del negozio, e sul risvolto dei miei pantaloni, a indignare me. Per un attimo fui distratto dal problema principale: perché cavolo ridevano?
Ci ripensai qualche giorno dopo, mentre stavo studiando diritto civile, e gli anziani del piano di sopra ballavano il liscio alle quattro di notte. Certi valzer che rimbombavano sulle pareti di cartongesso del mio appartamento da studente. Andai di sopra a protestare, mi aprì un ottantenne arzillo, abbronzato e a petto nudo. Dietro di lui la cena di Trimalcione, con donne e uomini accaldati, cotechino e porcina, e bicchieroni di frizzantin. Provai a chiedergli se potevano abbassare il volume del grammofono (mi parve adeguato dire grammofono visto che non appartenevano alla mia stessa era geologica), perché, mentii, l’indomani dovevo sostenere un esame. L’ottantenne mi rispose, lo scrivo in italiano, perché non so scrivere in triestino: «Anch’io ho fatto l’esame. Ho una prostata d’acciaio». Poi urlò «Prosit!» innalzando un calice invisibile. La porta si chiuse, la musica continuò, se possibile ancora più alta, tanto che dovetti chiedere asilo a una compagna universitaria che abitava al piano di sotto.
Mi svegliai pieno di dubbi. Non capivo quelle battute, non le capivo, non c’era niente da fare. Ma cercai di essere positivo. Non volevo rinunciare: Trieste era una città bellissima e misteriosa, e il particolare mistero del suo senso dell’umorismo lo mettevo tra i tanti misteri che dovevo risolvere.
Ma gli interrogativi crescevano, non diminuivano. Intanto: c’erano le scritte che trovavo nei cessi dell’università. Come è noto, la solitudine dei bagni pubblici, la porta chiusa, la giovane età e la vicinanza con le feci (da sempre oggetto comico e corporale), spingono, soprattutto gli uomini, a riempire pareti e porte di scritte oscene. Di solito riguardano il sesso, ma a Trieste il tema etnico era molto frequentato. Triestini contro friulani battibeccavano a puntate dopo la prima provocazione. Ricordo una di queste dispute che iniziava con: «Perché i friulani hanno il cervello grande come una pallina da ping pong? Perché non sanno giocare a tennis».
E giù risposte friulane sui cervelli dei triestini, simili alle biglie, o alle noci sgusciate, per poi passare ai piselli e da lì naturalmente a confronti fra dimensioni più basse e vigorose di cui ogni etnia, da che mondo è mondo, sostiene di avere il record mondiale. Ma la prima battuta era inarrivabile, aveva un senso dell’assurdo, uno humor così spiazzante che si ergeva un chilometro sopra la lunga querelle di chi ce lo aveva più grosso e più duro. Aggiungo anche questo altro aneddoto: un giorno avevo appuntamento con un assistente universitario per una tesina. Andai in istituto, ma non trovai nessuno. Allora chiesi a un ragazzo, studente come me, se aveva visto l’assistente, lui mi rispose, impassibile: «Non lo troverai mai: non è un uomo, è il terzo segreto di Fatima». Non rise, non mutò espressione, ma qualcosa di irresistibilmente divertito si aggirava per l’aria.
Per uno come me, che veniva dalla bassa friulana, solidarizzare con triestini di sesso maschile era come cercare unicorni su Marte. L’unica possibilità era l’allegria straripante delle femmine (quelle allegre: nonostante il luogo comune, ho conosciuto anche triestine tristi). Come quasi tutti gli studenti forestieri, avevo una amica triestina, estranea all’università, che si divertiva ad avermi vicino per compatirmi. Andai da lei e le spiegai, con aggrovigliati giri di parole e smozzichi di aneddoti, il rompicapo umoristico in cui ero immerso. Lei lo risolse in un attimo: “Ma sono viz!”, disse alzando gli occhi al cielo, come se non si capacitasse della mia ignoranza.
Allora non lo sapevo, ma viz è una delle tante parole che Trieste (città cosmopolita come poche) prende in prestito da altre lingue. Viz viene ovviamente dal tedesco witz, motto di spirito; così come Cocal, gabbiano, dal greco; o Patok, ruscello, dallo sloveno; o il celebre visavi, di fronte, dal francese vis-a-vis.
Il witz come concetto ha una storia lunga complessa e variegata. Per Freud, che gli ha dedicato un saggio, è una delle chiavi di accesso all’inconscio, o meglio è quel meccanismo che ci permette di parlare pubblicamente di ciò che si agita nell’inconscio (spesso sporca roba sessuale); e la risata di risposta è invece il riconoscimento da parte di chi ascolta di aver colto almeno una parte del discorso implicito (e inconscio). Per fare un riassunto ai limiti della faciloneria, la psicanalisi dovrebbe portare l’io nell’inconscio, mentre il witz fa il contrario, porta l’inconscio nella realtà. Nei casi migliori, si tratta, se vogliamo, di una forma alta del gioco degli equivoci (un grande classico della comicità), dove una cosa o una persona non è mai esattamente quella cosa o quella persona, ma è altro: buffo e pericoloso a un tempo. La realtà, toccata dal witz, non è la stessa realtà che c’era prima del “tocco”, è una realtà contaminata da un livello di senso irriducibile, straniero eppure famigliare. Una realtà più ricca, ambigua, venata di desideri inconfessabili e paradossi labirintici.
Naturalmente non esiste una battuta o barzelletta al mondo che non derivi da altre barzellette e battute più antiche. La comicità viene copiata generazione dopo generazione e cultura dopo cultura. Ognuna delle battute che ho raccontato proviene quindi da una catena di battute che probabilmente arriva a Trieste dal codice di Hammurabi. Ma se analizziamo questo piccolo campionario, lo scopriamo esemplare dello sdoppiamento della realtà di cui sopra. Se un assistente universitario, nel viz, non era più un assistente, ma diventava il terzo mistero di Fatima, di colpo lo vedevo aggirarsi per i corridoi, come la pallida ombra di un presagio, e ogni parola che diceva aveva il valore di uno scongiuro incastonato nell’eternità. Se il mio esame di diritto civile, nel viz, non era più un esame curricolare, ma diventava un esame clinico, allora la mia carriera somigliava preoccupantemente alla morte (cosa in fondo abbastanza corretta).
La crudeltà di dire che il tuo avversario etnico assume la conformazione cerebrale del gioco che gioca, non comportava solo un gioco di dimensioni, significava vederlo come una macchina di un senso tanto speculare alla realtà quanto imperfetto fino alla goffaggine. E ancora, se una partita di calcio diventava una lezione di storia, o meglio l’abolizione del crollo dell’impero austroungarico, significava lasciare una risata sul campo di calcio che fu la prima guerra mondiale. Le cose si sdoppiano, rieccheggiano più o meno profondamente di altri sensi. In sostanza, chi riesce a capire i viz, questa particolare forma di umorismo, può entrare nei desideri, nell’inconscio della città.
Trieste, come i suoi viz, è una città di desideri voraci e violenti come il vento. Una città selvaggia, raffinatissima e popolaresca, a volte crudele, a volte bonaria, a volte tanto assurda che per uno straniero è difficile se non impossibile entrare in sintonia. Ma è una città in cui quella cosa non è mai solo quella cosa, che sia un assistente universitario o una partita di calcio o un esame o, mi perdonino i friulani, un friulano. Se viene toccata dal viz, l’inconscio entra nel circolo della realtà, il mondo si capovolge e ci troviamo tutti, a volte felici a volte feriti, con le gambe all’aria.—
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo