I tre carabinieri uccisi nell’eccidio di Peteano. Ricordo senza i parenti
SAGRADO «Per il loro supremo sacrificio, per la fede, la speranza e l’amore che li animarono nel servire la Patria, dona a loro la vita eterna, a noi il conforto, all’Italia e al mondo la prosperità e la pace». Sono le parole della preghiera per i Caduti, pronunciate dal cappellano militare della Legione Carabinieri Friuli Venezia Giulia, don Albino D’Orlando, a rompere un silenzio quasi irreale. Per la prima volta in 48 anni, la commemorazione dell’eccidio di Peteano si è svolta ieri in forma ristretta, poco più che simbolica, senza neppure la presenza dei familiari delle vittime. L’emergenza Covid-19 ancora in atto non ha dato scelta alle autorità, tant’è vero che al monumento non hanno potuto recarsi neppure i vertici nazionali dei Carabinieri, né gli amministratori regionali.
Quel che conta è che Antonio Ferraro, Donato Poveromo e Franco Dongiovanni, i carabinieri uccisi in quel vile attentato dinamitardo, non siano stati dimenticati. E che i loro familiari abbiano «totalmente compreso» – come riferisce l’Arma – le ragioni di una cerimonia che per ragioni di sicurezza è stata giocoforza snella e brevissima. «Il sacrificio di questi ragazzi è una ferita ancora aperta» sono le uniche, commosse parole pronunciate dal comandante regionale della Legione Carabinieri Friuli Venezia Giulia, generale di Brigata Antonio Frassinetto, accompagnato dal comandante provinciale di Gorizia, tenente colonello Alessandro Carboni, e dai comandanti della Compagnia di Gradisca, Barbara Salvo, e della Stazione di San Martino del Carso, Danilo Amici. Unici amministratori presenti, quelli di Sagrado, Savogna e Gradisca: i sindaci Marco Vittori e Luca Pisk, l’assessore Sergio Bianchin. Le note del “Silenzio”, diffuse in forma digitale con delle casse, hanno preceduto e reso solenne la deposizione della corona in onore dei tre carabinieri. Una preghiera, una breve riflessione e il rompete le righe: «Quei ragazzi rimangono nel cuore» dice un carabiniere presente, che certo 48 anni fa non era ancora nato. Ma sa cosa sia il senso del dovere.
Pioveva a dirotto, quella sera del 31 maggio 1972. Da poco era terminata a Rotterdam la finale della Coppa dei campioni tra l’Ajax e l’Inter, battuta da due gol di Cruijff. Da un bar, il Nazionale di Monfalcone, partì una telefonata anonima ai carabinieri di Gradisca. Erano le 22.35. A ricevere e a registrare la chiamata fu il centralinista di turno Domenico La Malfa. Il testo della comunicazione, in dialetto, fu il seguente: «C’è una 500 bianca vicino alla ferrovia, sulla strada per Savogna, con due fori sul parabrezza». Sul posto giunsero tre gazzelle dei carabinieri. La prima pattuglia ad arrivare fu quella dei militari dell’Arma di Gradisca, con l’appuntato Mango e il carabiniere Dongiovanni. L’utilitaria era visibile in un viottolo, subito dopo una curva. Mango decise di chiamare il tenente Tagliari, che partì accompagnato dal brigadiere Antonio Ferraro e dal carabiniere Donato Poveromo: arrivarono con una seconda gazzella alle 23.05. Poi arrivò una terza pattuglia da Gorizia. I carabinieri Antonio Ferrero, Donato Poveromo e Franco Dongiovanni tentarono di aprire il cofano del mezzo, provocando l’esplosione dell’auto e rimanendo uccisi, mentre altri due militari rimasero gravemente feriti. Peteano è uno dei pochi attentati dell’epoca di cui si conoscano i responsabili: Carlo Cicuttini, Ivano Boccaccio e il reo confesso Vincenzo Vinciguerra. Qusi mezzo secolo è trascorso da quella notte, ma di Peteano – dei suoi caduti, dei depistaggi che ne seguirono, dello Stato che ripristina la giustizia e la legalità – è rimasto un segno indelebile. Che neppure il virus può estirpare dal cuore. —
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