I segreti di alchimisti e crociati nelle oscure scritte di Muggia

di GIOVANNI TOMASIN
Era un vecchiaccio cieco e terribile, il doge della Repubblica di Venezia Enrico Dandolo. Arrivato alle redini della Serenissima nell’età dei patriarchi, ottant’anni, ne aveva quasi cento quando decise di partecipare all’infame Quarta Crociata. La prima cosa che la flotta veneziana fece, appena partita, fu una tappa nel golfo di Trieste, dove il doge pretese un atto di sottomissione da parte di Muggia. Inutile dire che non si trattava di terra «pagana», e la crociata proseguì su questi toni, finendo nel 1204 per saccheggiare la cristianissima Costantinopoli invece di conquistare il Santo Sepolcro.
Si tratta di una nota a piè di pagina della Storia, ma consente di inquadrare il contesto in cui nasce il mito della Muggia misteriosa, confortato da una miriade di piccoli indizi, disseminati qua e là nel cuore medievale della cittadina rivierasca. Una vicenda in cui si incontrano supposti alchimisti, scritte misteriose e, come vuole la tradizione in questi casi, l’ordine monastico-militare dei cavalieri templari.
La prima tappa del viaggio è un vicolo angusto del centro. Sul muro di una casa addossata alle altre, tra i panni stesi al sole, un riquadro nell’intonaco svela una scacchiera di iscrizioni. L’opera riporta la data di realizzazione: l’anno del Signore 1429 nel mese di marzo. Tutt’attorno alla data una serie di 63 conci disposti su otto file raffigurano ognuno un simbolo diverso. Sono rovinati dalle intemperie e dagli anni, ma alcune immagini sono ancora visibili. Si riconoscono un levriero, un cervo, un polpo, quello che pare essere un centauro, figure umane in diverse posizioni, un cavallo con qualcuno in sella, un drago che fronteggia un serpente, una croce, una torre circondata da mura circolari, uno stemma a scacchi simile all’odierna bandiera croata, il leone di San Marco, una coppa affiancata da due animali e da decorazioni floreali e via dicendo.
La strana composizione si trova in calle del Ghetto ma, come spiega un articolo scritto da Alessandro Mlach su un numero del “Tuono” del 2010, non necessariamente è riconducibile alla comunità ebraica muggesana medievale. Le ipotesi sono diverse. C’è chi ci vede una tavola alchemica, simile a quella (molto più tarda) riprodotta su una volta di castello Lantieri a Gorizia. Secondo altri la spiegazione più probabile sta nell’araldica.
Ma quella di calle del Ghetto non è l’unica scritta enigmatica della cittadina. Un’altra si trova sulla cime dell’altura soprastante, a Muggia Vecchia, dove c’è l’unico edificio ancora in piedi del nucleo originario del Castrum Muglae: la basilica di Santa Maria Assunta, vecchia almeno di otto secoli, se non di più. Custodisce ancora oggi un bellissimo ciclo di affreschi, che include una grande raffigurazione di San Cristoforo. Il santo, come da tradizione, sta guadando un fiume pieno di pesci e porta in spalla Gesù Bambino. Ai suoi piedi due riquadri: in uno è rappresentato un leone, nell’altro una scritta il cui significato è oscuro. Le prime parole compongono sicuramente il nome del sa. nto in un misto di caratteri greci e latini, mentre le altre sono di difficile interpretazione. Sul web si trova una curiosa proposta di scioglimento: «Chr(ist)ofo/ri s(ancti) sp(e)/ciem qui/cum)que tue/tur ill(u)m /q(uoti)die null(o) / langore te/netur». Ovvero: «Chiunque guardi l’immagine di San Cristoforo sarà immune da malattie per quel giorno».
Il genere di augurio che il lettore accoglie con favore, soprattutto se si è fatto la scalata a piedi da Muggia centro in una torrida giornata di agosto. C’è però chi teorizza retroscena ben più complessi: il sito “Luoghi misteriosi” tira in ballo le balaustre interne alla chiesa, risalenti a epoche precedenti e riutilizzate nella basilica, suggerendo che le loro decorazioni floreali siano segno della presenza in loco di un culto pagano poi cristianizzato. Grazie anche alla sua storia millenaria, accennata in apertura, Muggia si presta a questo genere di giochi e speculazioni.
Tornando alle crociate, proprio di qui passava uno dei possibili percorsi di pellegrinaggio verso la Terra Santa. Non a caso sembra che la cittadina ospitasse un possedimento dei celebri cavalieri templari. Questo ordine cavalleresco e la sua tragica fine hanno sempre suscitato fervide fantasie e da allora esercitano un fascino mai sopito. Neanche Muggia si sottrae al magnetismo, tanto che il Comune ha dedicato ai monaci guerrieri una via, e perfino l’Ordine dei cavalieri templari cattolici d’Italia (una delle numerose associazioni neotemplari) non disdegna di fare qualche capatina in città per compiere atti di devozione. Gli stimoli non mancano. Sopra l’ingresso dell’antica chiesetta del Crocifisso, a due passi dall’iscrizione di calle del Ghetto, sulla pesante architrave in pietra fa bella mostra di sé quella che sembra essere una classica croce templare. La chiesa è successiva alla messa al bando dell’ordine, ma nulla esclude che l’architrave sia un riutilizzo di edifici precedenti.
Ancora: incastonata nella facciata di un bel palazzo veneziano in via Oberdan, troviamo incisa un’altra croce che ricorda quella dei templari. E se volessimo giocare al “Codice Da Vinci”, potremmo individuarne altre risalenti a epoche ancora più recenti: ad esempio a decorare le pareti della chiesa di San Francesco o sulla facciata della chiesetta di San Sebastiano. Ma avanti di questo passo si rischia davvero di far la fine di Dan Brown e accavallare supposizioni senza costrutto. Quando si tratta quest’argomento, invece, è sempre bene tenere a mente il severo monito che Umberto Eco impartisce in quel capolavoro che è il “Pendolo di Foucault”: «Quando uno tira in ballo i templari è quasi sempre un matto».
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