I profughi a Romans: «In fuga dal califfato, laggiù volevano ucciderci»

ROMANS. «Per quanto tempo dovremo rimanere qui?», chiede uno dei pochi afgani che parlano inglese. “Qui” è il gazebo allestito dalla Protezione civile all’interno dell’ex campo sportivo del paese. È l’una di notte passata e la prima giornata italiana dei profughi di Romans d’Isonzo non si è ancora conclusa.
C’è chi non chiude occhio da oltre 30 ore. I minorenni sono stati già accompagnati a gruppi in altri luoghi, ma gli adulti non hanno ancora finito. Prima di potersi sdraiare sulle brandine preparate dai volontari, devono lavarsi. C’è chi non fa una doccia da più di una settimana e c’è chi chiede un rasoio per radersi. «Domani: ne riparliamo domani». Al momento la barba non è considerata una priorità. Più importante è il mal di denti di un ragazzo dai capelli neri come il petrolio.
È seduto insieme ai compagni sull’erba verde del campo da calcio quando scosta il labbro inferiore e, da dietro la rete metallica, con un dito, indica un molare enfatizzando una smorfia di dolore. Chiede se c’è un medico. Alla risposta negativa, domanda un antidolorifico. «Ora vediamo se ne troviamo uno». Passa qualche minuto e il medicinale arriva. I suoi occhi scuri si illuminano. Si alza in piedi, porta la mano destra al petto e inchina leggermente il capo per ringraziare la volontaria che gli ha portato la pastiglia. Dopo qualche minuto riesce anche ad addentare una mela e solleva il pollice destro come a dire che ora va sta bene.
La giornata è stata lunghissima per tutti, non solo per i migranti. È stata lunga per i carabinieri che li hanno dovuti identificare; è stata lunga per la mediatrice culturale che ha dovuto tradurre decine e decine di storie tutte simili, ma diverse tra loro; ed è stata lunga per gli abitanti di Romans che, dal nulla, si sono dovuti inventare volontari imparando in poche ore il mestiere dell’accoglienza.
«Cosa gli diamo da mangiare domani mattina?», si domanda una donna. La risposta è la più banale che ci sia: «Mangiamo quello che mangiate voi. Ci va bene qualsiasi cosa», risponde quello stesso afghano che si chiedeva quanto tempo avrebbe dovuto rimanere a dormire nel gazebo. Folta barba nera, lui è il più vecchio di un gruppo eterogeneo che per età spazia tra i 13 e i 40 anni.
Una volta rotto il ghiaccio, comincia a raccontare la sua storia: «Sono ingegnere agrario. Lavoravo per un’organizzazione internazionale allo sviluppo dell’agricoltura, un giorno i talebani mi hanno mandato una lettera. O smettevo di collaborare con gli stranieri o mi uccidevano. Ho lasciato mia moglie e i miei cinque figli, una femmina e quattro maschi, a mio fratello e me ne sono andato. È successo un anno fa. Sono rimasto un po’ in Iran, poi la presenza di Daesh (il Califfato, ndr) mi ha convinto a fuggire anche da lì. Viaggio da due mesi. Sono arrivato in macchina dall’Ungheria con altre tre persone. Tutti gli altri li ho incontrati qui, non li avevo mai visti prima». I minorenni hanno raccontato di essere venuti in Europa per studiare perché nel loro Paese non è possibile farlo.
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