I pendolari di confine “costretti” al lavoro nero
TRIESTE. Nove su dieci, stime alla mano, sono pagati in nero. Un piccolo esercito mai quantificato con esattezza e che adesso, per la prima volta, sarà oggetto di un tentativo di “censimento”. Sono i frontalieri del Friuli Venezia Giulia, pendolari di confine che vengono a lavorare in regione da Slovenia e Croazia. In Europa il fenomeno conta oltre un milione di persone. Numeri piccoli a livello continentale, ma capaci di incidere sensibilmente sui circoscritti mercati del lavoro delle zone di confine.
Nel resto d’Italia sono migliaia i connazionali che fanno rotta quotidiana verso impieghi in Svizzera, Francia e Austria. Il Fvg fa eccezione, perché i flussi sono quasi tutti in entrata da Slovenia e Croazia: i sindacati ritengono si tratti di circa 10mila frontalieri, di cui fa parte anche il migliaio di cittadini italiani che hanno scelto di comprare casa in Slovenia e Austria, mantenendo la propria occupazione in Fvg. La stragrande maggioranza è tuttavia composta da sloveni e croati, quasi sempre assunti in modo irregolare. Gli ambiti d’attività sono quelli di un pendolarismo di confine di tradizione secolare: colf, badanti, braccianti, muratori, operai navalmeccanici, addetti del terziario. Dopo l’ingresso in Europa dei due Stati ex jugoslavi, oggi non esistono impedimenti a stipulare un contratto regolare per un frontaliero, ma nel settore domestico e nell’edilizia il “nero” è abitudine consolidata, con un pagamento medio da 10 euro l’ora. Spesso il trattamento sta bene anche ai lavoratori, che preferiscono un netto più alto a tutele sociali e contributi, comunque insufficienti per maturare la pensione italiana. Una realtà difficile da intercettare, se i controlli degli Ispettorati non sembrano in grado di scalfire il nero nemmeno fra imprese edilizie e subappalti della cantieristica.
Il Consiglio sindacale interregionale, coordinamento delle principali sigle italiane, slovene e croate, protesta da anni per l’inerzia delle istituzioni, sia nel contrasto delle elusioni, che per il mancato sforzo dei tre Stati nell’armonizzare i rispettivi quadri normativi, dove il frontalierato quasi mai è considerato come condizione specifica. Per il presidente del Csir, Michele Berti, «la quantificazione precisa dei flussi è complicata dalle posizioni irregolari e dal fatto che i frontalieri non sono tenuti a registrarsi nel paese di lavoro, come avviene per gli stranieri che risiedono stabilmente in Italia». Il conteggio sarà tentato per la prima volta quest’anno dal programma Euradria, che dal 2006 vede Regione, Centri per l’impiego e organizzazioni di categoria adoperarsi per favorire mobilità e informazione dei frontalieri. Per Berti «il settore va disciplinato, rendendo omogenee le leggi dei tre paesi, come chiesto dall’Ue, secondo cui chi lavora in un altro paese europeo deve godere delle stesse condizioni fiscali e di sicurezza sociale dei residenti». Molti sono tuttavia gli ostacoli alla libera circolazione. I frontalieri in regola possono accedere ad assegni familiari e maternità, ma il fatto di non avere domicilio in Italia impedisce loro di fruire dell’indennità di mobilità in caso di licenziamenti collettivi, incassare voucher per il lavoro occasionale, iscriversi al collocamento italiano. Molti aggirano il problema eleggendo a domicilio fittizio l’indirizzo dell’azienda dove lavorano. Peggio ancora va per le prestazioni sociali erogate da Regioni e Comuni, strettamente legate alla residenza.
L’altro corno del problema sta nel groviglio che nasce dall’essere assoggettati in contemporanea agli ordinamenti fiscali dei due paesi di lavoro e residenza. Sistemi non abituati a dialogare. Ne derivano dichiarazioni dei redditi complicate e non sporadici casi di doppie tassazioni, il cui rimborso è soggetto a lunghi ricorsi. L’Ue dispone la stipula di accordi fra nazioni confinanti, per consentire al frontaliero di interfacciarsi col sistema fiscale del solo paese di lavoro, facendo sì che sia questo a indennizzare il paese di residenza per la quota spettante. L’Italia ha spinto per chiudere simili intese con Svizzera e Francia, per assicurarsi i trasferimenti sulle tasse dei propri lavoratori all’estero, ma non ha fatto lo stesso con Slovenia e Croazia, dato che in Fvg i flussi sono rovesciati. Per Berti «simili complessità non spingono i frontalieri a cercare in Fvg lavori in regola: governo e Regione dovrebbero fare di più, a cominciare da accordi chiari sulla doppia tassazione e garantendo la possibilità di cercare lavoro e accedere alle misure di sicurezza sociale. Per favorire l’emersione del nero, servono regole comuni e controlli: l’Italia perde molti soldi per il mancato ingresso delle tasse sul lavoro e non fa niente per contrastare la concorrenza sleale di quelle imprese che assumono in nero».
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