I palombari triestini e gradesi tra gli “eroi segreti” del Giglio

Un gruppo di specialisti del Friuli Venezia Giulia in prima linea nel recupero «Abbiamo raddrizzato l’enorme “balena bianca” lavorando notte e giorno»

TRIESTE. Sono triestini e gradesi. E sono tra i protagonisti del recupero della Concordia: un pugno di specialisti del Friuli Venezia Giulia, in buona parte sommozzatori, tecnicamente “operatori tecnici subacquei”.

I palombari del Friuli Venezia Giulia, usando il termine più tradizionale e romantico, sebbene quasi decaduto, hanno partecipato in prima linea all’assestamento della nave da crociera naufragata il 31 gennaio del 2012 all’isola del Giglio. Ma quella che per l’opinione pubblica e la stampa internazionale è stata un’impresa unica al mondo, per loro non è stata altro che l’ennesima avventura vissuta lontano da riflettori e telecamere, un’immersione letterale in un lavoro che spreme molto, chiede ancor di più e concede solo a tratti.

Poi, certo, ci sono le emozioni. E quelle non naufragano mai: i componenti della squadra partiti da Trieste e Grado alla volta del Giglio, dove sono approdati nello scorso giugno, lo sanno bene. “Arruolati” in buona parte sotto la bandiera della Micoperi, il gruppo ravennate che assieme all’americana Titan ha contribuito a raddrizzare la Concordia, i palombari coinvolti sono i triestini Sandro Damico, Paolo Monfreda, Carlo Cettin, Pietro Sciarrillo e Pier Paolo Vergerio, questi ultimi due caposquadra, e i “mamuli” Giorgio Marchionni e Yurij Bean, l’uno sub e l’altro coordinatore.

Quando sono arrivati al Giglio, al primo “incontro” con la Concordia, l’hanno ribattezzata la “grande balena bianca”: una balena ferita che andava aiutata. Il nomignolo, forse, serviva a stemperare la tensione e avviare un dialogo muto con un relitto che, in superficie, scatenava un imbarazzante circo di massa, con tanto di foto ricordo con il cellulare sullo sfondo del naufragio mentre in profondità, a pochi metri dalla riva, raccontava lutti, tragedie, dolore. «Avevamo a che fare – ricorda Damico, 45 anni, uno degli specialisti triestini impegnati nelle operazioni – con un’enorme “balena bianca” che presentava un enorme squarcio e una scia di vittime e sofferenza. Il primo pensiero è stato questo».

Poi, naturalmente, c’è stato il lavoro da fare. I ritmi serrati. Il tempo mai alleato. Il piano di recupero della Concordia, all’inizio, era una scommessa ardita. Alla fine è diventato un’impresa storica. Affinché ciò succedesse i palombari hanno lavorato sempre, notte e giorno, a Natale e Capodanno, organizzati in squadre composte da una decina di operatori diretti da un caposquadra. Le mansioni? Dalla trivellazione alle saldature, dalle demolizioni alla messa in opera di tiranti e catene, la base delle piattaforme che hanno determinato la prima fase di recupero.

In fondo al mare, spiegano, bisogna saper far di tutto e bene. Ed è un mestiere che si impara solo studiando nella bottega del mare: «Sub si diventa, certo. Poi, però, la pratica per certe mansioni si fa solo a contatto di un esperto. Ed è per questo – spiega Damico – che sono importanti, oltre alla passione, il gruppo, l’esperienza collettiva, l’unione e la solidarietà. Tutti elementi che, al Giglio, non sono mai venuti meno tra noi».

A fare da guida il gradese Bean che, a soli 37 anni, è stato uno dei direttori dei lavori: «È stata dura, durissima e, diciamolo, in molti non ci credevano. Poi, giorno dopo giorno, abbiamo smentito tutto e tutti». E la Concordia è stata raddrizzata mentre i palombari sono pronti a nuove avventure: «Nonostante i disagi non abbandonerei mai questo lavoro. Voi non sapete quante altre missioni importanti portiamo a termine. E di cui nessuno parla» conclude Bean.

Di sicuro, la vita del sommozzatore non è semplice: si va a caccia di relitti, si parte in missione per “guarire” imbarcazioni o piattaforme navali, si opera ovunque e con qualunque condizione atmosferica, coniugando l’esperienza del sub con la destrezza manuale di un operaio specializzato. Un mestiere difficile eppure, spesso, precario: si lavora molte volte come “free lance”, alternando normalmente 45 giorni di attività e due settimane di pausa, ma la “sosta” a casa non viene retribuita. Ci si sottopone a rigorosi controlli medici, legati alle quotidiane fasi di decompressione, e si sta lontani da casa. «Non disponiamo ancora del riconoscimento dell’usura del lavoro e nemmeno di un tariffario definito» ricorda Damico. Mollare, però, è impossibile: «Siamo a contatto con il mare, in missione continua, e io ho sempre amato questo mondo e i relitti. Impossibile cambiare».

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