I non vedenti: «Le nostre vite normali con l’aiuto del Rittmeyer»

Perfler, alla guida dell’Istituto per ciechi: «Ci arrivai dall’ospedale di Bolzano in ambulanza, avevo 10 anni. Qui mi sono trovato bene, la città mi ha dato tutto»
Created by Readiris, Copyright IRIS 2009
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«Sono entrato al Rittmeyer quando avevo 10 anni. Era il 2 settembre 1975. Il viaggio dall’ospedale di Bolzano a Trieste l’ho fatto a bordo di un’ambulanza».

Questo racconta Hubert Perfler, presidente dal 2004 dell’istituto fondato un secolo fa, nel 1913, dalla baronessa Cecilia Rittmeyer. Nel testamento la nobildonna aveva scritto che lo scopo della sua iniziativa benefica era quello di offrire un sostegno «ai ciechi poveri di Trieste». In questi cent’anni molte cose sono cambiate e non resta quasi nulla se non il ricordo di quel mondo che viveva gli ultimi sussulti della Belle époque. Poi sono venute due guerre e molti totalitarismi hanno sconvolto l’Europa. Al contrario il proposito della baronessa non solo si è realizzato ma, come dice il presidente Hubert Perfler, «i ciechi sono passati dagli angoli delle strade e dal sagrato delle chiese dove chiedevano l’elemosina, anche alle cattedre universitarie».

«Sono riconoscente a Trieste e ai triestini - prosegue Perfler -. Qui mi sono trovato bene, la città mi ha dato tutto: la possibilità di studiare, un lavoro alle Assicurazioni Generali, molti amici, una moglie e una figlia che oggi ha 19 anni e vede perfettamente. Mio padre e mia madre erano dei contadini, lavoravano nel maso di famiglia, a mille metri di quota nei pressi di Vipiteno: avevamo 180 mucche e tantissimi maiali. Quando sono andato a scuola, gli insegnanti hanno capito che dal banco non riuscivo a vedere la lavagna, hanno preso atto che scrivevo senza seguire le linee tracciate sulla pagina del quaderno. Prima mi hanno ricoverato all’ospedale di Bolzano per accertamenti e dopo sei mesi di degenza ininterrotta i medici hanno capito che ero affetto da una retinite pigmentosa che mi aveva ridotto la vista a un ventesimo. Sono un ipovedente e senza l’assistenza ricevuta al Rittmeyer mai sarei riuscito a conquistare una vita normale. Ho sciato anche con Much Mayr, indimenticato campione di libera, e ho conquistato un settimo posto alle paraolimpiadi di Innsbruck. In una prova di velocità ho raggiunto i 123 chilometri orari con un paio di sci lunghi due metri e 30. Una medaglia d’oro olimpica l’ho invece vinta a Barcellona in una disciplina di squadra».

Pierpaolo Lenaz, vicepresidente dell’Istituto, è entrato al Rittmeyer il primo ottobre 1964. «Avevo quattro anni e iniziai a frequentare la scuola per l’infanzia. Papà, che faceva il falegname, e la mamma si erano accorti che non guardavo verso mia sorella quando lei mi parlava. Mi hanno portato al Burlo e anch’io sono rimasto per mesi all’ospedale. Non c’erano solo problemi di occhi. Poi sono entrato qui dove ho lavorato da assistente e maestro ma sono stato anche dirigente vicario della scuola di San Giacomo che fu dedicata al Duca d’Aosta. Qui al Rittmeyer da ragazzo ho suonato per sette anni il pianoforte un po’ svogliatamente e ho giocato a calcio con un certo successo, così almeno dicono. Ma del mio giorno d’entrata all’istituto e dei primi anni ricordo poco; so solo che per me le vacanze erano un incubo perché dovevo vivere lontano dai miei amici. Anch’io sono un ipovedente, dei giornali a fatica leggo solo i titoli ma sono riuscito a diplomarmi al Carducci. Maestro di scuola e poi studente universitario. La fatica è stata enorme; dovevo dare la vita per seguire le lezioni, prendere appunti e fare i compiti. Oggi è più facile per gli ipovedenti perché la tecnologia ci ha messo a disposizione un sacco di strumenti. Uso correntemente il tablet perché mia figlia vi ha inserito un programma che aumenta di molto la dimensione delle lettere dell’alfabeto. Leggo, scrivo, anche se da tre metri di distanza vedo solo la prima riga della tabella in uso agli oculisti. Per tutti gli anni che ho frequentato le varie scuole sono stato ospite del Rittmeyer».

«Rientravo a casa dai miei genitori solo la domenica - racconta ancora Lenaz - mentre gli altri ragazzi con cui vivevo indossavano la divisa per andare a messa o per passeggiare in gruppo sul lungomare di Barcola. Vivevamo in grandi cameroni, divisi in tre gruppi di età. Maschi da una parte, bambine dell’altra. Ognuno con le rispettive docce comuni. Mangiavamo tutti assieme, in un grande refettorio. Ecco perché dico che la gioventù l’ho trascorsa in una sorta di caserma. Oggi invece è tutto diverso. Le stanze sono singole con il proprio bagno. Ciascun allievo segue un programma di apprendimento personalizzato, costruito per le sue esigenze. Ecco perché siamo orgogliosi di quanto è stato fatto in questi anni e possiamo affermare che i ciechi sono passati dagli angoli delle strade alle aule universitarie. Qui i ragazzi fin dalla età più tenera vengono educati a utilizzare la vista che comunque non aumenta ma cresce invece la sua qualità».

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