I geni non bastano a spiegare i perché dell'omosessualità
Quanto conta la genetica nel definire il nostro comportamento, sesso compreso? Era la metà degli anni Novanta quando Dean Hamer, dottorato a Harvard e poi ricercatore al Nih a Bethesda, propugnava a gran voce che c’è una variante genetica per ogni condizione. Un gene per l’umore e i tratti della personalità, un gene per l’omosessualità, un gene persino per le scelte religiose («il gene di dio», come venne chiamato).
Scrisse dei bei libri su questa visione estrema; il più famoso è Living with our genes, del 1999. La ricerca successiva ha però ridimensionato le idee di Hamer: in tutte le condizioni complesse, in particolare quelle legate al comportamento, i geni coinvolti sono tanti, ciascuno con un’influenza piccola. E poi l’ambiente modifica il comportamento dei geni, modulandone l’espressione. La più recente dimostrazione di questo concetto è venuta la scorsa settimana, con la pubblicazione su Science di uno dei più grandi studi di genetica finora condotti: quasi 480 mila individui della Uk BioBank nel Regno Unito e di 23andMe, l’azienda statunitense che analizza il Dna della saliva, studiati per capire se esistano dei geni che predispongono al sesso omosessuale.
I risultati hanno mostrato come effettivamente cinque varianti genetiche siano associate all’omosessualità. Una di queste sembra particolarmente interessante, perché è anche associata alla calvizie e cade vicino a un gene importante per il differenziamento sessuale. Tuttavia, le cinque varianti genetiche insieme spiegano meno del 25 per cento del comportamento. E nessuno di questi marcatori, né da solo né in combinazione con gli altri, può essere utilizzato per diagnosticare una predisposizione.
Aveva torto Hamer, quindi, ad affermare che esiste un “gene dei gay”, ma ha sbagliato anche tanta stampa che ha riportato la notizia concludendo che nelle scelte sessuali siano soltanto l’ambiente e l’educazione a giocare un ruolo.
In realtà, nel comportamento come nelle malattie, la genetica continua a contare, e lo provano gli studi sui gemelli e sull’ereditarietà nelle famiglie. Ma i geni coinvolti sono così tanti e diversi da rendere la loro identificazione difficile, perché ciascuno di loro risulta troppo diluito nelle analisi massive sulla popolazione. E le variazioni genetiche trovate sono quasi sempre inutilizzabili per la predizione. Ad esempio, le malattie cardiovascolari hanno un’importante componente ereditaria, ma nessun test genetico è altrettanto affidabile dei livelli di colesterolo e pressione per predire il rischio di infarto.
Per uscire da questo problema sarà necessario un nuovo approccio di studio, ma quale questo possa essere rimane ancora oscuro –
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