I 40 anni della Monte San Pantaleone tra verdura biologica e lavoro agli “ultimi”

L’azienda agricola del parco di San Giovanni, nata nel 1978 dopo la chiusura dei manicomi, festeggia la sua attività

TRIESTE «Dopo averli chiusi, i manicomi, bisognerebbe raderli al suolo e spargerci sale». All’indomani dell’approvazione della legge 180 del 1978, lo psichiatra Franco Basaglia esprimeva così la sua preoccupazione rispetto alla possibilità che si potesse fare marcia indietro sul pensiero e sull’azione che portarono allo smantellamento degli ospedali psichiatrici. Nonostante quella paura legittima, nel Parco di San Giovanni – un tempo manicomio triestino – i protagonisti di quella rivoluzione hanno continuato a prendersi cura delle persone e degli spazi: in questo luogo ha trovato terreno fertile anche l’impresa sociale, prima tra tutte la cooperativa Agricola Monte San Pantaleone che quest’anno compie quarant’anni.

La storia

Trieste, 1978. Nasce una nuova realtà lavorativa, il cui humus è rappresentato da persone fragili e svantaggiate, ma anche da giovani della città che si interessano di ecologia, di biodinamica, di orticultura. Inizialmente la cooperativa Agricola trova sede sotto l’inceneritore sul Monte San Pantaleone (da qui il suo nome) per poi trasferirsi nel Parco di San Giovanni. In breve tempo viene ristrutturata la vecchia portineria e viene aperto un negozio di verdura biologica, “Le quattro stagioni”. Questo momento coincide con l’arrivo di Giancarlo Carena, infermiere e attuale presidente. «A quel punto –racconta – ci rendiamo conto che il nostro radicchio è fantastico ma è davvero fuori mercato. Iniziamo così a pensare al giardinaggio e realizziamo un primo intervento in Villa Cosulich». Un lavoro che dura un anno, durante il quale ci si prepara per misurarsi con il mercato.

Saper produrre salute

All’Agricola Monte San Pantaleone non si realizzano solo beni e servizi. «Investire sull’intelligenza delle persone è un modo per produrre salute – osserva Carena –. Tutti quelli che sono transitati qui hanno avuto l’opportunità di imparare ma soprattutto di stare meglio. Abbiamo immaginato luoghi belli, in cui tutti noi possiamo stare un po’ meglio». Un processo che, di pari passo alla deistituzionalizzazione, ha dato e dà valore a chi è escluso e, contemporaneamente, proporne forme di integrazione tra la produttività e l’assistenza. «La cooperativa agricola ha avuto un ruolo multiplo, segno di assunzione di responsabilità sociale – osserva lo psichiatra Franco Rotelli – impiegando persone che difficilmente avrebbero potuto trovare un lavoro e valorizzando attivamente il Parco di San Giovanni».

La sensibilizzazione

In quattro decenni, la piccola cooperativa sociale è stata capace di investire in ricerca e formazione, ma anche di promuovere importanti eventi culturali. Da Horti Tergestini, l’annuale mostra di piante e arredi per il giardino, a Rose Libri Musica e Vino, l’appuntamento primaverile con gli aperitivi culturali nel roseto che oggi ospita migliaia di piante. Fino ad arrivare all’ultimo convegno del 30 novembre scorso intitolato “Che ne è dei 70 manicomi? ”, dedicato agli spazi che in Italia hanno visto l’orrore. Oggi, luoghi riutilizzati ed entrati nella normalità o abbandonati a se stessi. O ancora, luoghi in cui – come nel Parco di San Giovanni – rimangono ancora margini per compiere quella rivoluzione non ancora terminata.

«Mancano cinquemila rose perché altrettante ne abbiamo messe ma altrettante ne avevamo, in più, promesse – scrive Rotelli nel volume La rosa che c’è – per me sono il segno della città ancora incerta, la cifra del possibile, non inverata la pienezza della vita vera che volevamo per noi e per i folli». –


 

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