Ho scoperto le parole “patria” e “sacrificio”

Paolo Rumiz sui 150 anni dell’Unità d’Italia

Che tempesta di pensieri già a notte fonda. Era strano: andavo a festeggiare l'Italia con un grande fumogeno tricolore, su un monte alto sulla piana secessionista dei veneti, eppure pensavo al Giappone.

In quella pioggia malata, col merlo che cantava nel buio, il mio pensiero insonne andava ai cinquanta eroi chiusi nella centrale di Fukushima. Ho acceso la radio, e non parlava di Italia. Mandava bollettini di guerra dal Pacifico. I cinquanta di Fukushima. Cosa significa "patria", pensavo, se non questo sacrificio di sé per i figli? Che cosa se non questa compostezza di un popolo davanti alla tragedia? Le foto sui giornali dicevano più di mille reportage. La riconoscenza di un vecchio portato a spalle da un soldato. Le parole gravi e calme dell'imperatore. Le macerie elette a promessa di rinascita, non a contenitore di audience o palcoscenico per l'autoglorificazione di un premier. Il treno si tuffava nella nebbia, e ancora il pensiero andava all'isola lontana, alla sua dignità di nazione, al confronto inevitabile con questo mio Paese smarrito, fatto a pezzi dagli egoismi, col senso della vergogna ridotto al minimo.

Pensavo con un grumo di sentimenti ai ciliegi contaminati sul Pacifico e al deflusso ordinato di un popolo in coda per l'acqua. E lì, dondolando verso l'Isonzo col tricolore nel sacco, finalmente capivo. Non era solo pietà. Era anche invidia. Era folle, assurdo, ma invidiavo il Giappone. Passavo sull'Isonzo improvvisamente gonfio e marrone e tutto si chiariva. Quell'isola lontana cercava qualcosa che da noi s'era perduta. Il futuro. Il lavorare per qualcosa che va oltre il proprio tempo biologico e il miserabile tornaconto individuale. L'idea che c'è qualcosa di più grande, senza la quale la vita non ha senso. La propria terra, intesa come luogo dei Padri e casa comune. Il nostro cuore, annegato nella religione dello spreco, privato del gusto della libertà. Il treno volava nella pianura fradicia verso uno squarcio d'azzurro, e io celebravo la nostalgia di generazioni ardenti che avevano dato la vita per un futuro di libertà. Giovani che non tolleravano l'idea di un popolo diviso e sottomesso.

Quello che ora stiamo ridiventando, 150 anni dopo. E d'un tratto capivo che Garibaldi era odiato dai secessionisti non per aver fatto l'Italia ma per avere il torto di ricordare a noi genuflessi che una volta siamo stati liberi. Per questo lo detestano. Proprio lui, non il bieco Lamarmora. Lui e non Cadorna, un sadico che non vinse mai e non liberò un bel niente. Campi allagati, spade di luce da Est. Verso le otto, un messaggio dal Summano, dove le mie camicie rosse avevano bivaccato accanto a una santabarbara di fumogeni. Pareva venisse dalla piana di Austerlitz: «Gli uccelli cantano dall'alba. Lo squarcio c'è. Sveglio la truppa. Iniziano le operazioni, ci vediamo sulla soglia del monte».

Poi la salita, con Marco Paolini e Alberto Peruffo, il Grande Artificiere. In cima, un assembramento di bella Italia. Alpini, professori, operai, boscaioli, persino una ragazza col velo. Vento, bandiere, canti, nevischio e poi, in uno squarcio tra le nubi, l'eruzione tricolore a picco sulla piana fratturata. Il Summano come il Fujiyama. Stavamo balbettando parole stanche, svuotate dalla retorica, per riformularle in modo nuovo, in faccia al vento monsonico e ai fiumi gonfi di questa malaprimavera. Pensavo ai ragazzi in tuta antiatomica a Fukushima e mi salivano alle labbra parole come patria, cosa pubblica, dovere, sacrificio, religione civile. Una sintassi da rifondare. Una chiamata alle armi della nazione contro il grande imbroglio globale. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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