«Herat, fra aiuto ai soldati e missione da chiudere»

Il triestino Risi comanda la Brigata Julia: «Così continuiamo a favorire la crescita delle forze di sicurezza nazionali e prepariamo il rientro italiano»
Di Pier Paolo Garofalo

TRIESTE. «Le loro forze armate hanno compiuto in questi anni progressi notevolissimi; ormai nella Regione di Herat sono in grado di condurre ogni giorno autonomamente fino a tre operazioni a livello di battaglione impiegando migliaia di uomini: sono proiettati verso la completa autosufficienza e noi interveniamno solo quando necessario». Il giudizio lusinghiero sull’Esercito nazionale afgano (Ana, Afghan National Army) nella lotta agli insorgenti e al terrorismo, forse un po’ ottimista vista la situazione soprattutto a livello nazionale, è del generale Michele Risi, comandante della Brigata alpina Julia rischierata da oltre un mese nella Regione Ovest del Paese. È quella da ormai più di 12 anni affidata alla leadership militare italiana, prima nell’ambito dell’Operazione Isaf, e da gennaio in quella “Resolute Support”, entrambe a guida Nato. All’alto ufficiale triestino e ai suoi uomini, circa 1.200 di cui metà italiani, non solo “penne nere”, il delicato compito di chiudere la missione, cioè preparare anche fisicamente mezzi e materiali per il rientro in Italia (anche se di recente il premier Matteo Renzi ha annunciato la probabilità che le truppe italiane, al fianco degli Usa, restino alcuni mesi in più rispetto a quanto previsto), continuando a garantire l’appoggio alle forze di sicurezza nazionali, in forma di consulenze e supporti speciali. Devono prepararle per quando la comunità internazionale “con le stellette” lascerà il Paese.

Generale Risi, iniziamo proprio dal profilo della missione: può delinearlo?

Con “Resolute Support” da una parte continuiamo a favorire la crescita delle forze di sicurezza afgane, in termini di addestramento, gestione del personale, logistica. È un compito sfaccettato e a volte molto particolare. Ad esempio attraverso il controllo della gestione e distribuzione delle risorse e dei mezzi favoriamo l’integrazione a livello nazionale dell’esercito afgano. Non seguiamo più le truppe sul terreno ma non per questo abbiamo smesso di fornire supporti speciali, in casi di gravi difficoltà, come intelligence, supporto areo, evacuazioni mediche urgenti mentre in questi settori collaboriamo alla loro pianificazione.

Scontri quasi giornalieri, ora inizia la campagna di combattimenti estiva: quale la situazione di reparti e uomini?

Gli afgani sono combattenti straordinari, bisogna ricordarsi che soffrono perdite non da poco, e quasi ogni giorno. Eppure continuano a contrastare gli “insurgents”. Ora sono in grado di pianificare e condurre operazioni strategiche di sei, sette mesi ma permangono alcune lacune, anche a livello tattico.

Quali sono?

Ad esempio nella standardizzazione di messaggi, magari per chiamare il supporto aereo, o in alcune procedure o nella lettura delle carte. L’Afghan National Army è la punta di diamante dell’apparato statale afgano, è l’istituzione che vanta la migliore percezione di affidabilità. È una sfida affascinante contribuire a fare crescere un esercito rinato, alle prese con novità tecnologiche di assoluto rilievo internazionale.

Com’è la situazione a Herat?

È fluida. L’esecutivo nazionale sta riempiendo la casella della Difesa e, a seguire, quelle dei vertici militari e del governatore della Regione di Herat, oltre a quello della polizia. Il vecchio predecessore, un uomo distinto e affidabile, sta per andare in pensione. Anche qui la crisi internazionale ha, in qualche modo, colpito: gli scambi economici (la regione ha frontiere con l’Iran e il Turkmenistan, ndr) si sono ridotti del 30-35%, parecchi esercizi commerciali chiudono, a dire dei titolari anche per il rincaro delle tariffe dei servizi. Ma l’impegno degli Usa a restare in Afghanistan anche nel 2016 ha infuso speranza.

E il “materiale umano”? Ancora una manciata di anni fa l’analfabetismo tra la truppa era molto diffuso...

Quello afgano è un esercito in ristrutturazione e molti giovani ufficiali sono stati formati all’estero. L’analfabetismo è in forte diminuzione, d’altronde molte scuole sono state costruite proprio da noi nell’ambito della cooperazione civile-militare. Certo, qualche ufficiale della vecchia guardia, magari formatosi a Mosca o esiliato per 10 anni, ha qualche difficoltà, si sente spiazzato...

Ma la Brigata Julia deve anche organizzare il rimpatrio di mezzi e attrezzature...

È la seconda “faccia” del nostro lavoro, ed è un impegno quotidiano, spesso svolto al termine della giornata dedicata a seguire gli afgani: ci sono 3mila metri lineari di mezzi e materiali da preparare per il trasporto aereo negli Emirati Arabi Uniti e poi via mare fino in Italia. Si tratta di circa 140 mezzi e 330-350 container.

La quotidianità, infatti: come è la vostra? Dall’Italia a volte l’opinione pubblica fatica a immaginare quella dei militari in missione...

Per assolvere ai compiti di appoggio all’Ana, ogni giorno Un’aliquota di “advisor”, consiglieri, si reca al centro di comando e controllo, da dove si pianificano le operazioni dell’Ana, anche insieme alla polizia locale, mentre un altro gruppo si trasferisce a lavorare al Comando del 207° Corpo d’armata dell’Ana, a circa 8 chilometri dalla nostra base. Poi c’è il lavoro di ripiegare i materiali, catalogarli, imballarli e di riconfigurare i mezzi, il tutto per il rientro.

Detta così, non si capisce come ci siano ancora 1.200 militari stranieri a Herat...

Per ogni advisor ci sono due, tre uomini di scorta, poi bisogna considerare quelli addetti alla “protezione vicina”, quelli a guardia della base e gli altri preposti alla gestione e all’impiego degli elicotteri, dell’intelligence e altri assetti. Sono cifre in calo. Assicuro che di lavoro ce n’è per tutti: è faticoso ma anche molto appagante.

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