Gli stereotipi sugli anziani e l’arte del tramontare

Non basta prendere la parola contro la fragilità e agire di conseguenza per tutelarla, bisognerebbe andare oltre e riscoprire quella ricchezza intrinseca alla vecchiaia che la società attuale penalizza, anzi quasi sempre cancella
Pier Aldo Rovatti

TRIESTE Dobbiamo difendere gli anziani, ma non possiamo certo limitarci a questo. Non basta prendere la parola contro la fragilità e agire di conseguenza per tutelarla, bisognerebbe andare oltre e riscoprire quella ricchezza intrinseca alla vecchiaia che la società attuale penalizza, anzi quasi sempre cancella.

Il quadro viene notevolmente appesantito dalla pandemia. L’abbiamo tutti davanti agli occhi: novantamila decessi è la cifra impressionante alla quale stiamo avvicinandoci, quanti over 80 la riempiono? Quanti focolai si sono accesi nelle case di riposo? Quanti se ne sono andati via dalla vita in un drammatico silenzio? Ma anche: quale vita è quella che si svolge nelle strutture per anziani e a che cosa allude la parola “riposo”? Intanto, là fuori, qualcuno ne approfitta per fare i conti con la cosiddetta “inoperosità”: viene zittito, certo, ma poi sotto sotto si tende a dargli ragione.

Gli anziani diventano inoperosi, e allora? Questo significa che dobbiamo considerarli “inutili” sulla base di un’idea economicamente limitata di utilità sociale? Ecco le domande che non possiamo continuare a evitare, quasi fossero prive di senso. Nella nostra storia passata essere anziano ha voluto dire avere acquistato una saggezza utile a tutti gli altri per via dell’esperienza accumulata, grazie al fatto di avere imparato a vivere e di riuscire a comunicarlo ai più giovani. Un lascito considerato molto importante, del quale però oggi non rimane quasi traccia, e forse neppure rimpianto, capitolo chiuso. Sarebbe necessario, invece, tentare di riaprirlo almeno un poco.

“Anziani, anzi no”: rubo questo titolo a una rubrica radiofonica (in onda su Rai-Regione) perché introduce un po’ di giocosità in un’atmosfera cupa dove ci immaginiamo che la tristezza sia di casa, ma anche perché mi chiedo che cosa possa significare quell’“anzi no”. In una società ormai pervasa dal mito dell’eterna giovinezza, potrebbe venir inteso come la pretesa di non invecchiare mai: pretesa risibile. Perché nessuno di noi riesce a realizzarla e a nessuno conviene ostinarsi in una battaglia persa in partenza.

Secondo me questo “anzi no” tende invece a smontare l’idea stereotipata di anziano che abbiamo in testa: cerchiamo di non considerare soltanto la negatività che essa emana – inutilità, stanchezza, presagi della fine – ma introduciamo, attraverso un gioco letterale, la capacità del sorriso. Facciamo un foro nella tenda spessa che avvolge questa “età” della vita: se riuscissimo a penetrare, che cosa vedremmo? Forse riusciremmo a scorgere un insieme di aspetti contrastanti dove, però, non dovrebbe sfuggirci che lì viene vissuto un passaggio a qualcosa che rappresenta un’ “altra” età della vita e non solo un’opaca prosecuzione della vita adulta.

Si tratta di riscoprire una specie di saggezza simile a quella di chi, ai piedi della montagna, non si illude di poterla scalare ma sa ormai come, con la mente, si arrivi fin lassù? Non saprei dire se sia ancora in gioco una simile idea di vita saggia, e se l’anziano, posto che riesca a costruirsela, troverebbe orecchie disposte ad ascoltarlo. Mi sembra più adeguato interrogarsi sul fatto che l’anziano – se non lo ostacoliamo – sia in grado di entrare in un mondo diverso, dove molte dimensioni della nostra normalità si alterano e producono effetti nuovi.

Esiste “un’arte di tramontare” (come propone Francesco Stoppa nel suo Le età del desiderio di cui abbiamo parlato nelle pagine culturali qualche giorno fa)? È di sicuro un’affascinante prospettiva di riflessione, sia per l’attenzione a quel “tocco umano” che si svilupperebbe rimescolando l’esperienza comune della temporalità in un inedito intreccio tra passato e futuro, sia – soprattutto – per il fatto che questa “arte” contrasta con il giovanilismo trionfante senza che ci blocchiamo nel rimpianto del tempo ormai trascorso e nell’angoscia di quello che rimane da vivere.

Qui sarebbe opportuno aprire anche un capitolo non secondario che riguardi la capacità dell’anziano di mettere in discussione l’esperienza stessa della corporeità. È un’esperienza che di solito viene vissuta male, dato che il decadimento fisico non sembra trovare riscatto da nessuna parte e quindi viene avvertito come un clinamen ossessionante. Si riaprono a questo punto discorsi che sembrano ormai etichettati, come il rapporto vissuto con la malattia (e quello, di conseguenza, con gli stereotipi stringenti della salute fisica).

Ma si fa anche avanti un ripensamento della nozione di desiderio che consideriamo di solito una voglia di pienezza mentre ha invece a che fare con la capacità di creare il vuoto attorno a noi e dunque di “abitare la distanza”. Ecco un passaggio decisivo che l’anziano può insegnare a tutti noi, immersi come siamo in tanti falsi standard. —

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