Gli amici: «Giacomo ucciso da un’ossessione»

Per amore di una ragazza aveva promesso di abbandonare i farmaci ma non ha avuto il tempo
Giacomo (al centro in piedi) con i suoi amici
Giacomo (al centro in piedi) con i suoi amici
PRIMA LETTERA

Paura e «demoni»

Ho conosciuto Giacomo in terza media, dall'Addobbati si era trasferito al Dante, per lasciarsi alle spalle gli scherni e la lieve crudeltà dei ragazzini. Era flaccido e brevilineo, impacciato, ingenuo. Ero diventato suo compagno di banco, spinto dalla curiosità e dalla compassione; divenni in breve suo amico, commosso dalla sua sensibilità, dalla sua acutezza nel comprendere le persone, vinto dal suo disarmante altruismo.


Pareva destinato allo studio delle lettere e del mondo classico, cresciuto tra i libri di suo padre, mite professore di filosofia; Giacomo già discettava di Nietzsche e Schopenhauer, di Lao Tze. Quelle letture precoci rappresentavano la sua prima fuga dalla realtà.


La sua vita cambiò radicalmente nel gennaio del 2000, quando trovò l'amore e la passione per la quotidianità della vita. La sua innata capacità di ascoltare le persone, di capire e proteggere aveva trovato l'approdo tanto desiderato tra le braccia di F. Aveva 15 anni, ma l'amava come un uomo maturo. Temeva tanto di perderla; fu per sentirsi degno di lei che cominciò a frequentare la palestra dietro casa. Mi mostrò eccitato il tappetino sul quale ogni mattina allenava gli addominali.


Pensavo con sarcasmo che avrebbe smesso in una settimana, lento com’era, ma purtroppo mi sbagliavo. Dapprincipio la cosa parve a tutti piuttosto positiva, Giacomo cominciava a prendersi cura di sé. In breve calò la pancia, era felice di essere, se non bello, almeno carino, al fianco della sua ragazza. Aveva sempre avuto il culto di Bruce Lee e delle arti marziali, aveva tappezzato le pareti coi suoi poster.


Ma quando F. lo lasciò, sul principio dell'estate del 2001, franarono definitivamente gli argini del suo amor proprio; la tenebra che fino ad allora era sempre rimasta all'orizzonte – lontana pur se funerea presenza - calò pian piano sul suo capo, penetrando oscuramente la sua fragilità. Il cambiamento fu evidente e radicale, la palestra «California» divenne la sua seconda casa. Lì – diceva – poteva dominarsi, sfogare l'insana paura che dall'infanzia gli attanagliava il cuore. I frequentatori della palestra lo adottarono da subito con certo affetto, nonostante la giovane età e il fisico decisamente inadeguato, si allenava da campione, con un’ostinazione e una pervicacia degne di miglior causa. Per tutti era Giacomino, tutti lo corteggiavano con ambigua bonarietà, cullandone l'illusione di diventare un culturista. Era un'ossessione: «Non posso farci niente, è il mio demone», ripeteva spesso.


Cominciai a preoccuparmi quando vidi per la prima volta nella sua cucina un vasetto di compresse verdi: «Sono aminoacidi - mi spiegò -, tranquillo, è tutta roba naturale, non mi voglio mica ammazzare». Probabilmente all'epoca era ancora vero. Prendeva integratori per non sentire la stanchezza, per potersi allenare senza avvertire il peso di quel suo corpo che gli era sempre stato d'impaccio. Il suo fisico progrediva, davvero era muscoloso: «Sarai soddisfatto - gli dicevo - hai raggiunto il tuo obiettivo». Ma soddisfatto non lo sarebbe stato mai, non era nella sua natura; e di obiettivi non ne aveva.


Quello della gara rimase un traguardo posto sempre un po' più in là, troppo in alto, troppo lontano. Così era per la felicità: la rimandava sempre a un futuro vagheggiato, a un incerto domani nel quale si sarebbe sentito a suo agio fra la gente; e a un certo punto smise di credere anche in quella possibilità. Cominciò a vestirsi tutto di nero, con gli occhiali da sole anche di notte. Era patetico, l'eroe di un fumetto. Ma se ne fregava dei commenti, delle malignità: la sfida alla vita era cominciata.


Noi amici non sapevamo mai come considerare i suoi eccessi, le sue bizzarrie: che dire di uno che si costringe a mangiare solo pollo – mezzo chilo al giorno – e albumi d'uovo? O nient'altro che tonno al naturale e insalata? Nei primi tempi si concedeva lo «sgarro» - così lo chiamava, ed era quasi un rito – il sabato sera: un panino, una pasta, una birra, un dolce. Poi smise anche con quello, divenne da un giorno all'altro assolutamente astemio, scrupolosissimo nella sua dieta iperproteica, totalmente priva di grassi, con meno carboidrati possibili. Pollo, pollo, pollo. Non riusciva a essere mai sazio. Per un periodo la follia lo portò a bere ogni giorno l'equivalente di tre caffettiere da sei, da solo. E siccome non dormiva, prendeva sonniferi e calmanti.


A noi amici faceva paura vederlo comprare i flaconi enormi di integratori, polveri giallognole, sgradevoli all'odorato, che beveva diluite in acqua. Oramai si stava calando nella tenebra più oscura, in un fango torbido in cui non c'era spazio per gli affetti; una palude in cui affondava giorno per giorno. Il male è vigliacco, si accanisce sempre sui più deboli.


Ma Giacomo non si fece corrompere: rimase fino alla fine un ragazzo tenero, estremamente generoso, onesto. Il cruccio di un amico era un torto per lui insostenibile, un’ingiustizia radicale, risolverlo era il suo rovello; per la felicità degli altri, quella che per sé riteneva inarrivabile, dava completamente se stesso. Ma la contraddizione tra il trattamento che riservava agli altri e quello che dava a sé, gli allontanò tanti amici, che addolorati, a poco a poco, lo abbandonarono, nella speranza che questo potesse essere per lui il segnale di un necessario cambio di rotta.


Il risultato fu che si sentì ancor più solo col suo impalpabile dolore. Il male non lo fece diventare cattivo, non lo strappò alla luce: ma Giacomo, come una larva, si tessé attorno il bozzolo di malinconia nel quale fatalmente è morto. Pur essendo sempre accompagnato dall'affetto di tanti amici – era impossibile non volergli bene – non riusciva mai a sentirsi amato. Dalla fine della storia con F. – per accettare la quale ci mise qualche anno – gli pareva che l'amore di una donna fosse un traguardo che la vita gli aveva negato, segno manifesto della sua inadeguatezza.


Trovò storie brevi e raffazzonate, con donne più grandi di lui; non si illudeva, non era quello che cercava. Ma era eccessivo nella bontà anche con queste ragazze, e per strappare loro un sorriso si dava a spese scellerate. «Giacomo, col fisico che ti ritrovi non troverai mai una ragazza seria, le spaventi». Ma ribatteva ostinato: «Una ragazza deve amarmi per quello che sono, andando oltre il mio corpo».


Era un romanticismo assurdo: aveva rivoluzionato tutta la sua vita per costruirsi quel fisico ingombrante, appariscente, provocatorio. Ma Dio gli riservò inaspettatamente anche questa gioia, sebbene per poco: tre mesi prima di morire aveva incontrato Elisa: era amore sincero, ne parlava con gli occhi lucidi e buoni, lei gli aveva già fatto la promessa enorme di sposarlo, una volta laureata. Per lei promise di abbandonare quel mondo: «Smetterò gradualmente», le disse, ma non ne ha avuto il tempo.

di Massimo Cosciani



SECONDA LETTERA

Disse: «Ormai non so smettere»

(...) Il bello di Bj - Bj sta per Black Jack, che è il soprannome che gli abbiamo dato dopo la nascita di quella sua famosa passione per i vestiti neri - era la sua solarità, legata a quel suo reale e disinteressato altruismo che lo ha sempre caratterizzato. Le serate passate con lui erano piene di vivacità e spensieratezza, da lui non trapelava mai nulla che non fosse positività o allegria. Sapeva mascherare bene il suo reale stato d'animo, che non voleva condividere con nessuno e che teneva lì, nel cuore, chiuso come in uno scrigno.


Sapeva bene che parlarci dei suoi problemi ci avrebbe preoccupati, e pertanto non ci pensava due volte a non farlo. Rimasi stupita infatti quando, in una serata dello scorso inverno, in cui lo vidi per l'ultima volta, mi disse esplicitamente che la sua vita non gli interessava più. Era la prima volta che mi parlava seriamente di un problema. Ed era un problema molto pesante.


All’inizio rimasi senza parole, poi lo esortai a dirmi cosa stesse succedendo. Lui raccontava sempre poco di se stesso, atteggiamento che rinforzò nel momento in cui cominciò ad abusare di sostanze illecite. Lui mi raccontò qualcosa, fatti con protagonisti senza nome. Capii che era una cosa grave.


Gli chiesi come potessi aiutarlo, ma lui mi disse che non voleva essere aiutato. Lui voleva vivere solo per sistemare i genitori in una bella casa nuova, perchè a loro come a noi non voleva fare del male, e del resto non gli importava più niente. Cominciai con le solite cose che un'amica si sente in dovere di dire: «Ma la tua salute? Quelle cose ti uccidono, tu che vuoi proteggere i tuoi genitori e i tuoi amici... pensi che con la tua morte a quelle persone non farai del male?».


Lui rispose facendo spallucce. «Ormai non riesco a smettere, è più forte di me». «Credi forse di non riuscire a trovare un'altra ragazza?». Era palese che il problema fosse sempre la sua prima Lei. «Ma sei pazzo?! Sei una persona a cui tanti vogliono bene... Ma come tutti devi aspettare la tua nuova ’’chance’’, abbi pazienza».


Lui non credeva più nelle ’’chance’’. Si stava invischiando in qualcosa di più grande di lui, e non riusciva più a vedere la via d'uscita. Alla fine della serata, che consistette in una continua paternale da parte mia, gli dissi di chiamarmi presto per un caffè. «Quando potrò ti chiamerò - mi disse - in questo periodo sono molto occupato».


Ora come ora non so cosa avessi potuto fare per lui. Era palese che ciò che gli mancava era solamente una persona a cui voler bene - lo aveva detto anche lui stesso - e a cui dedicare tutto quello che faceva. Era un ragazzo normale con dei grandi sentimenti, un ragazzo però così sensibile e fragile che usciva schiacciato dalla crudeltà dei fatti della vita. Nell'ultimo periodo sembrava aver preso una decisione ed essere risoluto. Aveva deciso di cambiare vita, aveva trovato finalmente uno spiraglio con una nuova ragazza. Aveva detto che aveva cominciato a smettere, ma che ci voleva tempo perchè con certe cose non puoi smettere di botto o rischi la pelle. Era già troppo tardi. (...)


Lui era un ragazzo come tanti altri, che ha scelto una strada lungo cui poter fare del male unicamente a se stesso senza coinvolgere nessun altro. In questo ultimo suo gesto di altruismo, quello di morire piano piano ogni giorno senza dire niente a nessuno, senza diffondere la sua sofferenza per preservare la vita delle persone che aveva intorno, io leggo tutta la sua grandezza come piccolo uomo fatto preda di un mondo opprimente e a lui estraneo, quello dell'Italia degli anni Duemila.

di Perla Rossini

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