Gladio, tutto è iniziato a Trieste

Einaudi pubblica un saggio di Giacomo Pacini sulle formazioni armate clandestine in Italia contro il comunismo

A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta «è esistita sul territorio italiano una struttura collegata alle forze armate (...), che non aveva a che fare con Gladio e al cui interno erano presenti militanti di quella cellula veneta di Ordine Nuovo che, da un punto di vista giudiziario, è stata riconosciuta materialmente responsabile degli eccidi di piazza Fontana e piazza della loggia». È un delle conclusioni cui giunge . Giacomo Pacini nel suo libro appena uscito per Einaudi “Le altre Gladio” (pagg. 329, euro 31,00), ovvero “La lotta segreta anticomunista in Italia. 1943-1991”. È forse la prima volta che uno storico si prende la briga di ricostruire una panoramica per quanto possibile dettagliata e completa delle formazioni più o meno segrete o paramilitari che hanno operato in tutta Italia e di cui Gladio è la più nota, ma certo non la sola. Anzi, Pacini dimostra che la galassia delle organizzazioni armate anticomuniste nel nostro Paese era, almeno fino ai primi anni Novanta, talmente fitta e articolata da lasciare ancora numerose zone d’ombra, anche se il disegno complessivo è ormai chiaro.

Le “altre Gladio”, in sostanza, nacquero per gemmazione da un nucleo originario le cui radici «affondano nell’insanabile contrasto che durante la lotta di Resistenza si creò tra i partigiani comunisti delle brigate Garibaldi e i partigiani cattolici e liberali delle brigate Osoppo», ed ebbe fertilissimo terreno di coltura proprio lungo la frontiera del Nord Est: il Friuli Venezia Giulia, e in particolare Trieste, svolsero un ruolo fondamentale nel reclutamento, armamento e addestramento della rete paramilitare clandestina, che negli anni avrebbe cambiato sigle, nomi, organigrammi, fino alla trasformazione da organizzazioni patriottiche di difesa territoriale in strutture in grado di alimentare il terrorismo nero e la strategia della tensione.

Dunque fu la strage di Porzûs, secondo Pacini, lo spartiacque oltre il quale si avviò un processo di organizzazione armata clandestina contro il “pericolo rosso”: a ridosso dei “quaranta giorni” di Trieste, per volontà degli osovani, determinati a difendere la regione dal pericolo di un’invasione jugoslava nei territori giuliani e friulani, nacquero in modo pressoché spontaneo fin dall’estate del 1945 «alcune primordiali strutture anticomuniste», che, rafforzate nell’armamento e nell’organizzazione, all’inizio del 1947 diedero origine alla «più importante struttura di tipo stay behind sorta in Italia nel dopoguerra, la Osoppo - Terzo Corpo volontari della libertà, dalla quale, nel 1956, provennero le prime unità operative di Gladio».

La nostra regione non fu però l’unico incubatore di organizzazioni paramilitari: in varie parti d’Italia nel corso degli anni Quaranta «numerosi partigiani cattolici e liberali, una volta conclusa la lotta al nazifascismo, rimasero in armi ed entrarono a far parte di strutture segrete create in funzione anticomunista». Tuttavia - come ben sappiamo da tanta pubblicistica locale - luogo d’eccellenza nello svolgimento di tale funzione fu senza dubbio Trieste, foraggiata dall’Ufficio zone di confine che distribuì fondi a pioggia a difesa dell’italianità, ma finanziò anche rifornimenti d’armi. Ed è sempre a Trieste che Pacini rintraccia, già dall’inizio degli anni Cinquanta, anche i primi momenti in cui elementi neofascisti cominciarono a “inquinare” le formazioni patriottiche (le bande di Cavana e del viale della Stazione). Perché su un punto l’autore insiste: «sia Gladio sia, di riflesso, tutte le entità a essa prodromiche sono state considerate tout court come strutture illegali ed eversive, perché nate al fine di sovvertire la democrazia. Non è così». Almeno non all’inizio. Poi, dalla strage di Peteano in avanti, il quadro si fa più incerto, e si allungano e addensano sempre più le ombre dell’eversione. Tanto che ancora negli anni Sessanta e Settanta diventa concreto «lo scenario secondo il quale Aurisina (cui è dedicato un intero capitolo del libro, ndr) era un territorio usato da estremisti di destra sia come retrovia per addestramenti di tipo militare, sia per occultare e recuperare armi ede seplosivi».

Dunque gli osovani, e poi i Gruppi di Autodifesa, i Fratelli d’Italia, la Divisione Gorizia e Odi, il Maci, Movimento avanguardista cattolico, l’organizzazione “O”, Stella Alpina, Gladio, l’operazione Delfino, i Nuclei per la Difesa dello Stato, il Sid paralleo...insomma la geografia della mobilitazione armata clandestina contro il comunismo è assai più complessa e articolata di quanto le cronache abbiano potuto far pensare. Pacini non si addentra nel tempo buio delle “stragi di Stato”: ciò che gli preme, ed è già tanto, è appunto ricostruire il mosaico delle organizzazioni armate anticomuniste, dimostrando semmai che proprio Gladio, alla fine, non fu che «una sorta di comodo “parafulmine” sul quale scaricare le responsabilità di organizzazioni che realmente furono invece coinvolte nella strategia della tensione».

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