Giovanni Cocco al Campiello «Mi hanno detto no 32 volte»
Un altro, al posto suo, avrebbe alzato bandiera bianca. Ma Giovanni Cocco credeva troppo nel suo libro. E così, dopo aver incassato 32 “no” dagli editori che non volevano pubblicarlo, ha trovato in Nutrimenti un team capace di innamorarsi de “La caduta”. Tanto da spingerlo fino alla cinquina di finalisti del Premio Campiello, che sabato 7 settembre sceglierà il vincitore al Teatro La Fenice di Venezia.
Nato a Como, classe 1976, Giovanni Cocco prima di dedicarsi alla scrittura ha lavorato come gommista, cameriere, operaio. «E non rinnego il mio passato, anzi. Leggevo i grandi classici e accettavo i lavori più diversi per vivere». Sposato con Amneris Magella, che di mestiere fa il medico legale, ha scritto insieme a lei un thriller di successo intitolato “Ombre sul lago”, pubblicato da Guanda.
“La caduta” è solo il primo tassello di un’opera imponente, intitolata “Genesi”, che uscirà in quattro volumi. Per raccogliere la documentazione che gli serviva, e poi scrivere, Giovanni Cocco ha lavorato cinque anni. Distillando storie dal sapore apocalittico, modellate nella struttura pensando ad alcuni cicli pittorici del Quattrocento. E che cercano il senso sfuggente di un mondo globalizzato dove la Natura sta impazzendo, l’umanità si divide tra catastrofi economiche e attacchi terroristici, tra stragi folli e rivolte sociali.
«Voglio lanciare subito una polemica. E dico che un editor, che lavora in una grande casa editrice, dovrebbe avere almeno quarant’anni - spiega Giovanni Cocco -. Perché? Semplice: prima non puoi avere letto tutto quello che serve per giudicare con competenza il lavoro dei nuovi autori».
Lo dice perché lei ha ricevutio tante porte in faccia?
«Lo dico perché nella case editrici italiane impera il “mainstream”. L’ansia di sfornare libri facili da vendere. Lo conferma la mia esperienza: “La caduta” è stato rifiutato per 32 volte dagli editori. Poi, con mia moglie Amneris Magella, abbiamo sottoposto il giallo “Ombre sul lago” a Guanda e loro hanno deciso di pubblicarlo subito».
Ci sono ancora bravi editori in giro per l’Italia.
«Sì, la vecchia generazione formata da Antonio Franchini alla Mondadori, Alberto Rollo alla Feltrinelli, Luigi Brioschi alla Guanda. Fino a quando loro terranno duro, per gli scrittori come me ci sarà una speranza. Altrimenti rischi di restare nell’anonimato per sempre».
Che cosa le contestavano?
«Per esempio il fatto che il romanzo non fosse ambientato in Italia. Per 32 volte hanno rifiutato il mio progetto, intitolato “Genesi”, poi ho trovato persone intelligenti come il team di Nutrimenti. Il secondo romanzo uscirà nel settembre del 2014».
Il commissario Stefania Valenti di “Ombre sul lago” vivrà?
«Certamente. La serie proseguirà con Guanda. E a gennaio pubblicherò un nuovo libro con Feltrinelli. All’improvviso mi vogliono tutti. E dall’estero si fanno avanti editori importanti».
Ma com’è nata “La caduta”?
«Sono un grande lettore di Thomas Pynchon, Don DeLillo, Roberto Bolaño. Volevo provare a fare un libro che andasse oltre i confini d’Italia. Partendo dalla rivolta nelle banlieu parigine, ho pensato di seguire i cambiamenti del nostro mondo globalizzato. E ho capito che la crisi economica, l’esplodere del terrorismo, il moltiplicarsi di orde di profughi che si spostano da un posto all’altro, sono eventi collegati tra loro».
Eventi dal sapore apocalittico?
«Certo, il vulcano che si risveglia all’improvviso in Islanda e paralizza l’Europa. L’uragano che spazza via New Orleans e la riduce a un fantasma d’acqua. Ci voleva una gabbia che tenesse assieme tutte queste storie apocalittiche. E io l’ho trovata nella Bibbia, in alcuni versetti profetici».
C’è poi la storia di Papa Ratzinger...
«Quella è una storia pazzesca. Avevo letto un articolo su “Limes” che raccontava l’elezione a Papa di Ratzinger. E il fatto che, in una sorta di ballottaggio, avesse superato il cardinale Bergoglio. Bene, due settimane dopo l’uscita de “La caduta” arriva la notizia che Benedetto XVI ha dato le dimissioni e che il nuovo Papa è Bergoglio».
Segni dei tempi...
«E sono segni che devono pur voler dire qualcosa. Ma noi italiani siamo troppo impegnati a discutere sui disastri fatti da Berlusconi. Come se quarant’anni di Dc non avessero prosciugato le casse pubbliche. Adesso, quelli che negli anni ’60 e ’70 volevano fare la rivoluzione sono tutti nei consigli d’amministrazione. E noi? Chiediamo di avere un futuro: lavoro, casa, famiglia».
Dai 32 rifiuti al Premio Campiello: com’è possibile?
«Non ci volevo credere neanch’io. Il giorno che hanno scelto la cinquina, un conoscente mi ha mandato un sms in cui c’era scritto: “La caduta” è tra i più votati. Sono un tipo tachicardico. Mi sono detto: stiamo calmi».
Era dai tempi di Gesualdo Bufalino...
«Che un editore indipendente non entrava in cinquina. Perché allora Sellerio era un po’ come Nutrimenti oggi. Devo dire che l’editore ha fatto un grande lavoro. L’ufficio stampa è riuscito a ottenere 55 recensioni del libro».
A questo punto un pensierino per la vittoria lo fa?
«Se avessi alle spalle un grande editore vincerei io. Invece credo che il Campiello andrà a Fabio Stassi con “L’ultimo ballo di Charlot”. E se Ugo Riccarelli non fosse morto...».
Ha fatto un sacco di mestieri...
«Gommista, magazziniere, operaio, cameriere. Adesso mi dedico soltanto alla scrittura. Anche se continuo a fare consulenze per l’agenzia letteraria di Loredana Rotundo».
Aldo Busi è il più grande scrittore italiano?
«Molti pensano che Aldo Busi sia quello dell’Isola dei famosi, il pistola che si diverte a provocare. In realtà, ha scritto due libri immensi: “Seminario sulla gioventù” e “Vita standard di un venditore provvisorio di collant”. Altri scrittori così in Italia si contano sulle dita di una mano: Alberto Arbasino, Claudio Magris, pochi altri».
Lo conosce di persona?
«No, forse è meglio così. Perché altrimenti, chissà, finirebbe per mandarmi al diavolo come fa con tutti gli altri».
Quando si è innamorato dei libri?
«L’amore per i libri nasce quando sei ragazzino. Altrimenti non diventi più un vero lettore. Ho letto tantissimo. Per anni, “Il rosso e il nero” di Stendhal è stato il mio punto di riferimento. Amo Gogol, Hemingway, oggi molti si accontentano di D’Avenia».
E la scrittura?
«Il mio esordio risale al 2004. Ho pubblicato “Angeli a perdere” con una piccola casa editrice, No Reply, usando uno pseudonimo, Johnny 99. Che, poi, è il personaggio di una canzone di Bruce Springsteen. I romanzi uscivano abbinati a un cd musicale. A me era toccata una band della mia zona: i Sulutumana, gruppo rock-folk che aveva vinto il Premio Tenco nel 2001».
Grazie a quel libro è finito in finale al Campiello?
«Si racconta che la Giuria dei letterati avesse scelto me per il Campiello Opera prima. Poi, hanno scoperto questo mio libro d’esordio sotto pesudonimo».
E allora?
«Mi hanno dirottato nella cinquina e hanno proclamato Opera prima “Cate, io” di Matteo Cellini. A questo punto, dovrebbe dirmi grazie...».
alemezlo
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