Gialuz: «Finita l’epoca della Compagnia portuale. Nel 1977 l’apice: raggiunse il tetto dei 1800 lavoratori»
Una storia lunga più di sessanta anni. Una delle anime del porto, a sua volta principale risorsa economica della città. Una fucina nella quale si sono fuse etnie e lingue diverse, in cui sono cresciute professionalità e amicizie, dove molti giovani sono maturati. Parliamo della Compagnia portuale, un nome che, in città, è universalmente conosciuto, perché elemento fondamentale della storia recente di Trieste. «E che raggiunse, al momento della sua maggiore dimensione, cioè nel 1977 – spiega Mauro Gialuz, storico e, per un significativo tratto della sua vita professionale, direttore della Compagnia portuale – il tetto dei 1800 lavoratori».
Numeri da grande industria moderna. Da abbinare, per rendere l’idea di quanto fosse nevralgico per la città il suo scalo marittimo, ai quasi 1750 dipendenti che, sempre nel ’77, contava l’allora Ente porto. Ma per andare con ordine bisogna ritornare a quel 24 gennaio del 1929 «quando il ministro Ciano – ricorda Gialuz - costituì in tutta Italia le Compagnie portuali perché all’epoca, nei porti, c’era un caporalato da gestire».
Il Regio decreto legge 24/01/1929 n. 166 introduceva infatti «su tutto il territorio nazionale un nuovo ordinamento delle maestranze portuali. Secondo tale decreto, tutti i lavoratori dei porti adibiti alle operazioni di carico, scarico e maneggio delle merci devono essere raggruppati in compagnie, ovvero in organismi dotati di capacità giuridica e guidati dalle figure dei consoli e dei viceconsoli».
A Trieste all’epoca il lavoro in porto era di considerevoli dimensioni e ben presto sorsero le tre compagnie locali. Nacquero esattamente il 20 agosto 1931, si chiamavano “Lino Domeneghini”, “Huetter” e “Tommaso Gulli”. Nel corso del tempo cambiarono denominazione: nel 1945 la “Lino Domeneghini” prese il nome di compagnia portuale “Carboni e Minerali”, la “Huetter” “Sbarco e imbarco merci varie” e infine la “Tommaso Gulli” che dapprima assunse il nome “Ernesto Scaramelli” e in seguito “Maneggio merci a terra” poi “Carboni minerali e rinfuse”.
«In periodo fascista – precisa Gialuz - erano cooperative soggette a un controllo esterno del Console, denominazione che fu poi conservata anche nelle fasi successive, cioè dopo la caduta del regime. Il Console – aggiunge - decideva chi lavorava e in che ambito in base alle famose ‘chiamate’, rispettando un regolamento di massima. Nei primi anni ’30, una circolare, emessa sempre dal ministro Ciano, consentì ai privati di avere un certo numero di persone direttamente dipendenti che lavoravano nei magazzini. E’interessante evidenziare – continua Gialuz – che la gran parte dei portuali erano carsolini e lavoravano soprattutto nel settore ‘Carboni, minerali e rinfuse’, mentre a terra molti erano triestini dei rioni di Cittavecchia e Rena vecia. Nello sbarco e nell’imbarco erano frequenti gli sloveni. Nel dopoguerra furono molti anche i pugliesi di seconda generazione a entrare nella Compagnia portuale. Con questa organizzazione del lavoro, si procedette fino alla fine degli anni ’50. Dopo la nascita delle cooperative negli anni ’60, impegnate nel lavoro di retro scalo, negli anni ‘70 e ‘80 - osserva Gialuz - ancora si diceva che i portuali avevano l’esclusiva nei magazzini di calata. Con il passare degli anni – sottolinea - la concorrenza diventava sempre più sentita e a essa andava unita una certa diminuzione del volume dei movimenti nello scalo. A un certo punto si contavano quasi 300 compagnie private. In porto, complessivamente – sintetizza Gialuz – lavoravano circa 4mila persone. Le compagnie erano come tre repubbliche separate – dice - e lavoravano a cottimo, perché era quello il meccanismo più apprezzato dai lavoratori, in quanto cercavano di portare a termine il lavoro di facchinaggio nel minor tempo possibile. C’erano regole di avviamento e distribuzione della tariffa. Nel 1980 il momento storico dell’unificazione, con un meccanismo unico della distribuzione ai singoli lavoratori. Nella seconda metà degli anni ‘80 – continua Gialuz - arrivarono i decreti Prandini che cancellarono la riserva del lavoro portuale. Da quel momento sorse la possibilità, comunque poi non realizzata, di non utilizzare la compagnie portuali. Per anni il sistema andò avanti simile al precedente, lasciando la compagnia portuale al centro delle operazioni allo scalo finché, nel ’94, la legge di riforma n. 84 permise alle compagnie portuali di fornire solo mano d’opera, oppure di creare una propria impresa, facendo contratti in autonomia, acquistando sollevatori e abilitando personale sulle gru. Si stabiliva una tariffa ‘tutto incluso’. Nel 2000, per una serie di concause, cominciò un massiccio esodo, dovuto anche alla progressiva introduzione di elementi di meccanica particolarmente raffinati, capaci di sostituirsi, in alcune mansioni, ai portuali, abituati, fino a pochi anni prima, a fare tutto a mano. Basta pensare che oggi, nei maggiori scali internazionali – rileva Gialuz – ci sono molti robot che operano. Oggi – conclude Gialuz - esiste un bacino di mano d’opera direttamente gestito dall’Autorità portuale, che invia i lavoratori alle singole imprese, cura gli aspetti ferroviari e gli interessi dei terminalisti. L’epoca delle compagnie portuale è definitivamente tramontata». —
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