Frattini a Trieste:"Maggiori responsabilità e per l'Europa un unico esercito"
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TRIESTE.
Solo ”una” Europa ”una”, capace di seminare con il suo intervento ”uno”, riapaccificazione militare, ricostruzione sociale e sicurezza istituzionale nelle aree di crisi mondiali potrà raccogliere quell’autorevolezza e quella solidità che le permetterà di diventare un attore attivo nella nuova ”governance globale” del pianeta. Franco Frattini dimostra nella sua lectio magistralis tenuta nell’aula magna dell’Università di Trieste dal titolo ”Dai Balcani all’Afghanistan, quali lezioni per la comunità internazionale?” e inserita nell’iniziativa patrocinata dal Piccolo su ”Vent’anni di crisis management” di voler gettare il cuore oltre l’ostacolo senza dribblare nessuno dei temi più scottanti dell’attualità.
Parte da Trieste il ministro Frattini, dal ruolo di osservatore «tristemente privilegiato» che la città ha avuto negli anni Novanta in occasione delle guerre balcaniche dopo la caduta del Muro di Berlino, e dallo sgretolarsi di quello che fu il mondo del bipolarismo con la polverizzazione dell’Unione sovietica e, ovviamente, della ex Jugoslavia per introdurre il tema della gestione delle crisi post guerra fredda e «delle lezioni imparate a riguardo dalla comunità internazionale». Il concetto condensato ai minimi termini si spiega facilmente: per ricevere bisogna saper dare. Emblematico a tale riguardo il summit che, su iniziativa italiana, l’Unione europea terrà a giugno a Sarajevo sulla questione dei Balcani occidentali. In quel contesto, alla presenza di Russia e Stati Uniti, verranno aboliti i visti per la Bosnia-Erzegovina, «perchè - spiega il ministro - bisogna saper offrire a quelle genti la possibilità di avvicinamento al macromondo europeo, dare degli strumenti che dal basso poi portino a quelle riforme istituzionali in grado di porre queste realtà in grado di stringere con l’Ue un’Accordo di associazione e stabilità, primo punto di partenza per l’adesione». «Possibilità - precisa Frattini - che va offerta a Sarajevo così come al Kosovo» in modo che non ci siano figli di un Dio minore per un approccio complessivo alla tematica dell’allargamento a Est.
Per attuare ciò bisogna «rivedere le regole del gioco internazionale e ridefinire le istituzioni che lo governano». A questo punto Frattini chiede con forza una riforma delle Nazioni Unite e l’entrata in scena del G20 in grado di cooptare protagonisti nuovi nella «governance globale» quali la Cina, l’India, il Brasile, senza dimenticare il continente africano. Per eliminare così «la persistente assimetria tra natura dei problemi da risolvere e gli strumenti a disposizione per farlo». Soprattutto alla luce del ”crisis management” post 1989, dove emerge «una seconda generazione di crisi che presenta caratteristiche più complesse che in passato». Ed è qui che Frattini inserisce la ”dottrina italiana” per la gestione di queste crisi.
«Ai tempi della globalizzazione (il bipolarismo è morto nel 1989 ndr.), il multilateralismo - afferma - è il metodo imprescindibile per un’efficace governance delle aree di crisi» in cui diventa «fondamentale il rapporto Onu, con Ue e Nato». Così com’è fondamentale «un approccio sistemico, un ”comprehensive approach” dove «l’intervento militare è spesso imprescindibile» ma dove non bisogna prescindere dall’«ottimizarre le risorse umane ed economiche massimizzandone l’impiego». In questo senso Frattini cita come esempio il successo delle elezioni irachene con una media nazionale di adesione al voto che sfiora il 65%. E ricorda che proprio grazie alla ”lezione italiana” questo approccio comprensivo si sta facendo strada in Afghanistan dove, accanto all’impegno militare bisogna lavorare per implementare quello nel «settore civile» in modo che questo «rivesta un’importanza strategica per dare una speranza al Paese».
In altri termini c’è «l’esigenza di responsabilizzare le autorità nazionali» in modo da trasformare una futuribile «exit strategy» in «transition strategy» perché bisogna sapere quando il tempo è maturo per «passare il testimone alle autorità locali». Anche per questo l’Europa deve saper costruire sicurezza e non solo consumare sicurezza. «Serve - ribadisce Frattini - un esercito europeo, ma soprattutto una vera politica estera europa» che sia in grado «di sviluppare appieno le sue capacità civili e militari di crisis management».
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