Francesco Macedonio, il regista che portava in scena le passioni
È scomparso martedì mattina a Gorizia Francesco Macedonio, fondatore e direttore artistico della Contrada, il regista che ha trasformato le “Maldobrìe” in un mito teatrale. Aveva 87 anni, i funerali si svolgeranno domani alle 11 nella chiesa di San Rocco a Gorizia.
di ROBERTO CANZIANI
Parlare con Francesco Macedonio era come veder squadernato davanti ai propri occhi il racconto del teatro. Non il teatro di adesso: il teatro a bilancio aziendale, il teatro a gestione professionale, il teatro in crisi. Ma - tutto all'opposto - il teatro come casa, come tetto o tendone, occasione di incontro e di godimento. Per chi lo fa e chi lo vede. Vedere gli spettacoli di Macedonio voleva dire ritrovare nelle immagini create in scena, proprio ciò che, magari poco prima, lui ti aveva detto di sé, della sua storia d'uomo e delle sue passioni.
Per molti spettatori, la figura di un regista ha qualcosa di misterioso. L'attore lo vedi: è lì davanti a te, potresti quasi quasi toccarlo. Il regista invece è il burattinaio nascosto, lo spirito intellettuale, il demiurgo che, grazie anche agli attori, dà vita alle proprie letture e ai propri sogni.
Così era Macedonio: un sognatore che sognava la Venezia di Goldoni, la Trieste di Kezich, le isole e i peripli dalmati di Carpinteri & Faraguna.
Di queste e di altre cose parlavo con Macedonio, quando per festeggiare la consegna del Premio Flaiano, nemmeno due anni fa, lo avevo portato sulla collina di Muggia. Quella sera d'estate Francesco aveva di fronte a sé Trieste, la città che gli aveva dato il mestiere. Volgendo lo sguardo vedeva la costa istriana, il litorale abitato a lungo nell'immaginazione, quando lavorava gomito a gomito con gli autori delle Maldobrìe. Sull'altro versante, nella penombra del sole che ci lasciava, c'erano Gorizia e il retroterra sloveno, i luoghi dove era cresciuto e tornavano immancabilmente nel suo racconto di teatro.
«Idria – diceva – il paese dove sono nato non offriva granché a un ragazzino curioso di cinema come ero io. Però il mio primo Tarzan l'avevo visto proprio là, nell'unico albergo del posto dove, tirato un tendone... si faceva il cinema».
Era stata Gorizia anni '30 la citta della sua formazione. Quella che fino a qualche decennio prima aveva fama di Nizza austriaca e borghese, per lui era il luogo dello spettacolo popolare: il circo povero con un cavallino solo, il varietà con le soubrettine che odoravano di talco, gli imbonitori che vendevano pentole e sogni. E in qualche rara occasione anche la prosa: Cesco Baseggio in “Sior Todero Brontolon”. O “Anna Christie” del “nuovo” drammaturgo americano Eugene O'Neill («ma i miei genitori non mi ci vollero portare: il testo parlva di una prostituta»).
Per capire fino in fondo ciò che è stato il suo teatro, bisognerebbe raccoglierle in un libretto, tutte le storie di teatro che Macedonio raccontava, tutti i film che aveva visto, tutti i libri che aveva letto. Volumi, volumetti, dvd e vhs in cassetta, li avevo visti riempire pareti e pareti di casa sua, quando ultimamente stanco e scoraggiato per quella malattia che a tradimento lo aveva sorpreso, aveva condiviso con me caffè e biscotti, senza fermarsi un attimo di raccontare.
E che rimpianto, adesso, non averlo di nuovo spinto a ricordare com'era andata quella volta che le sue Maldobrìe avevano battuto ogni record di presenza tra il pubblico triestino. O la temerarietà che lo aveva convinto pochi anni dopo a rimettersi in gioco gettandosi con Orazio Bobbio, Ariella Reggio e Lidia Braico, nella avventura popolare della Contrada. O il rapporto bello, perché ricco e conflittuale, che ogni volta, lui regista, ingaggiava con i suoi autori. Carpinteri & Faraguna, inventori di una lingua teatrale, ma anche giornalisti-autori come Kezich, Curci, Sabatti, che per lui avevano ricostruito una Trieste di memorie.
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