Flebo, gel e prodotti di bellezza per il Medio Oriente: così è risorta la Diaco di Trieste

TRIESTE Che le rughe potessero essere preziosa fonte di guadagno, oltre che di nevrosi mattutina, è universalmente noto. Ma che da Trieste partissero consistenti dosi di creme e filler destinate a levigare le fronti di signore e signori sauditi e iracheni, forse lo è un po’ meno. Perché non è affatto scontato che all’estero il made in Italy seduca anche attraverso l’acido ialuronico, oltre che con la moda, il cibo e il design. Alla Diaco Biofarmaceutici l’hanno capito, tanto che il triestino Alan Zettin, dal 2019 amministratore unico della società, lo dice chiaramente: «I nostri filler funzionano anche perché hanno il “marchio” Italia. Ci sono mercati come l’Arabia Saudita dove il prezzo conta poco; conta che il prodotto sia made in Italy, garanzia di qualità».
Istantanee da via Flavia 124, dove campeggia l’insegna verde della Diaco, storica azienda triestina che produce buona parte delle soluzioni infusionali (comunemente note come flebo) che troviamo nei nostri ospedali. Un’impresa letteralmente morta e risorta.
Fondata nel 1967, nel 2011 fallisce. Viene presa in affitto da una cordata di imprenditori italiani (S.m. Farmaceutici), che incappano però, nel 2013, in un’ispezione dell’Aifa (Agenzia italiana per il farmaco) finita male, con sospensione delle autorizzazioni per l’immissione in commercio per mancato rispetto degli standard di produzione, che porta al blocco dell’attività e all’abbandono dello stabilimento. La svolta arriva alla fine del 2013, quando si fa avanti una coppia di giovani imprenditori ucraini, Nataliia e Dmytro Derkach, manager della società di famiglia Yuria Pharm (big della farmaceutica in Ucraina che occupa 2.700 persone), che rilevano la società e danno vita alla nuova Diaco, avviando un piano di rilancio partito nel 2014.
Dopo sette anni e 12 milioni di investimenti, una rivoluzione totale per rinnovare locali, processi e macchinari, e il ripristino della licenza Aifa, oggi si possono raccogliere i frutti di questo lavoro. Lo certificano due dati: il numero dei dipendenti, passati dai 5 del 2014 agli attuali 104, e il bilancio, che nel 2020 è stato chiuso con un fatturato di 11,5 milioni di euro, per la prima volta dopo il fallimento in pareggio, anzi, in lieve crescita.
Merito anche dell’ultimo nato nello stabilimento triestino, uno spray igienizzante per le mani pensato e realizzato in un solo mese, lo scorso marzo, per rispondere alle esigenze legate alla pandemia. «Siamo particolarmente orgogliosi di essere riusciti a ideare e lanciare un nuovo prodotto in una trentina di giorni - spiega Alan Zettin -. Un prodotto che è andato molto bene, con circa 200 mila pezzi venduti, e che ha contribuito a farci raggiungere un obiettivo economico positivo. Nel settore farmaceutico gli investimenti sono ingenti e necessitano di tempi lunghi per portare risultati, ma, dopo sette anni, ci stiamo riuscendo». Ovviamente lo spray igienizzante è solo uno dei prodotti che escono dalla struttura di via Flavia, il cui core business rimane però quello storico, ossia la produzione di soluzioni infusionali in flebo di vetro, che finiscono negli ospedali tedeschi e soprattutto italiani, prevalentemente in Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Emilia-Romagna, Puglia e in provincia di Latina.
Alle soluzioni infusionali si sono aggiunte, negli ultimi anni, altre due tipologie di prodotti: aerosol e cosmetici (creme, sieri, fluidi per il corpo), i dispositivi medici e i filler iniettabili a base di acido ialuronico destinati alla medicina estetica, che invece vengono distribuiti, oltre che in Italia, in molti altri Paesi del mondo. «La nostra filosofia è preservare la qualità della vita - spiega ancora l’amministratore unico di Diaco Zettin -. E per tale ragione lavoriamo su più fronti, mantenendo sempre la stessa mission».
Oggi entrare alla Diaco significa inoltrarsi in uno stabilimento di 10 mila metri quadrati, di cui 650 adibiti a camere bianche, dove gli addetti lavorano con tute candide, maschere e protezioni simili a quelle di un astronauta o di un medico in un reparto Covid, per evitare di contaminare gli ambienti anche con il più microscopico dei batteri. Tali addetti danno vita al ciclo che permette di sfornare ogni giorno circa 90 mila flaconi con soluzioni infusionali (il dato è riferito alla soluzione da 100 millilitri, la più venduta), che scorrono vertiginosamente lungo le due linee produttive, passando da una stanza all’altra attraverso i nastri trasportatori, scrupolosamente controllati da un mix di macchinari ad alta tecnologia e occhi esperti. I flaconi vengono lavati, riempiti, tappati, sterilizzati, controllati attraverso la sperlatrice e infine confezionati, etichettati, inscatolati e depositati nei magazzini, pronti per essere portati dritti in corsia.
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