Fiume tra nostalgie triestine e la voglia d’Europa

Le contrapposizioni etniche, strascico degli ultimi genocidi vecchi di soli quindici anni, non sono sopite a Fiume, sebbene sia per fortuna difficile che si ripetano i fatti di sangue accaduti alla fine della seconda guerra mondiale. Ancora oggi non è difficile vedere alla veneranda età di 86 anni passeggiare per il Corso Oskar Piskulic, accusato di essere stato a Fiume il capo dell’Ozna, la polizia segreta jugoslava. È stato processato in Italia solo alcuni anni fa, incriminato per l’eliminazione nel 1945 di tre autonomisti fiumani, ma a Roma, dove non si è mai presentato è stato amnistiato per un omicidio e assolto da altri due.


Appena due notti fa una bomba ha sventrato un bar chiuso per ferie in via Vukovar che un tempo si chiamava via Trieste. «Ho fatto la guerra contro i serbi (che a Fiume sono ottomila, ndr.) - ha dichiarato il proprietario che era il comandante di un’Unità di guastatori - e forse qualcuno ha voluto vendicarsi». Mentre parlava aveva accanto il figlio che indossava una maglietta con l’immagine di Ante Gotovina, il generale catturato alle Canarie per essere processato per crimini di guerra dal Tribunale internazionale dell’Aja. Nel 2001 trecento reduci di guerra avevano inscenato in città una manifestazione di protesta contro la cattura del generale Miko Norac comandante dei reparti dell’esercito croato di stanza in Lika, poi condannato a Fiume a 12 anni di carcere. In una città tradizionalmente rossa che fin dalla nascita dello Stato croato è sempre stata guidata da giunte di sinistra, non mancano i nazionalisti croati, ma esiste anche un’associazione degli Amici del maresciallo Tito (il quale conserva l’intitolazione di una via) e un gruppo di nostalgici come succede ogni anno il 4 maggio si è recato a Kumrovac a rendere omaggio alla casa natale dell’ex dittatore.


«Con l’attuale premier Ivo Sanader i toni nazionalistici si sono molto ammorbiditi rispetto all’era Tudjiman - commenta Elvio Baccarini, preside della facoltà di Filosofia della locale università, che milita nel partito regionalista - e il dialogo tra il governo e una città di sinistra come Fiume è cresciuto.» La Croazia ha tentato di cancellare il passato dannunziano, italiano e jugoslavo di Fiume, ma la passeggiata con Baccarini non può non procedere con i passi della storia. Una rapidissima ricerca per trovare qualche vecchio che si ricordi personalmente di D’Annunzio (dovrebbe avere più di novant’anni) non dà esito. Per la strada passa in quel momento un giovane cultore di storia fiumana che indica la prima finestra a destra del grande balcone che orna il Palazzo del governatore il quale sovrasta solo di qualche centinaio di metri il Corso: «Affacciato a quella finestra D’Annunzio rimase ferito sotto i colpi della Marina italiana.»


Erano le quattro del pomeriggio del 26 dicembre 1920 e la nave Andrea Doria aveva centrato la finestra dello studio del Vate. Il 28 dicembre la città venne cannoneggiata, il giorno dopo la resa fu inevitabile. Scriverà nel 1940 Garibaldo Marussi: «Passavano tutti per le sale del palazzo ove il poeta accendeva viva avanti ai loro occhi la fittizia realtà dei sogni. I detronizzati, gli spodestati, gli esiliati, gli oppressi venivano a quella nuova mecca collocata sulle sponde orientali dell’Adriatico per fiutare l’hashish di cui avevano bisogno onde affrontare ancora la vita e cancellare le vecchie, continue delusioni.»


Tutto questo è cancellato ora nel palazzo che ospita il Museo marittimo e storico del litorale croato dove nelle sale laterali rispetto al grande salone e alla scalinata, si vedono alcuni modellini di galere e trabaccoli, attrezzi agricoli, abiti tradizionali, pentoloni vari, ciabatte d’epoca, cesti di vimini, armi antiche, stanze arredate con mobili del diciottesimo secolo e indicazioni solo in croato. Unici rimandi all’Italia: un ritratto di «Iginio cavaliere Scarpa» con l’iscrizione «Di ogni patria incremento benemerito fautore» e un ritaglio del giornale «Il regime fascista» che celebra il violinista Frane Kresnik (1869-1943). Fu in un appartamento triestino di piazza San Giovanni che l’impresa di Fiume venne concepita e il triestino Ercole Miani, capitano degli Arditi, conquistatore del Vodice, rivoltella in pugno si fece consegnare a Palmanova i trentacinque autocarri che partirono da Ronchi al seguito della Fiat 501 rossa decapottabile, a Fiume D’Annunzio ricevette la visita della poetessa triestina Nella Doria Cambon che gli riferì di come la mamma del Comandante si fosse rivelata nel corso di una seduta spiritica fatta nel suo salotto di via Geppa a Trieste.


«Me ne frego» era il motto dei legionari, «Eia, eia alalà» il saluto: per alcuni storici si trattò del laboratorio che collaudò il successivo regime fascista in Italia, per altri fu una sorta di repubblica anarco-bolscevica. La Reggenza italiana del Carnaro, fu di certo il primo Stato al mondo a riconoscere l’Unione sovietica. Fatto sta che tra il 1922 e il 1925 i legionari saranno oggetto delle rappresaglie poliziesche del governo mussoliniano subendo pestaggi, perquisizioni, arresti. Accanto al Palazzo del governatore nel 1976 Tito fece costruire una sorta di cubo di cemento e vi fece insediare il Museo della rivoluzione socialista. Dal 1994 è stato trasformato nel Museo civico ed è ancora più misero e deludente dell’altro.


Tra i pezzi più curiosi in esposizione, un berretto usato dagli scolari nel 1903, una locandina per la rappresentazione dell’Aida in occasione dell’inaugurazione del Teatro comunale e alcuni appendini del negozio Moskovitz che sorgeva in via Principe Umberto 5. La passeggiata con Baccarini conduce a Cosala dove c’è l’ossario dei Caduti italiani, ma la porta è sprangata e un cane ringhia minaccioso. Fiori freschi sul cippo che dice «Ai fiumani di ogni fede e razza scomparsi in pace e in guerra cui violenza totalitaria negò umana giustizia e cristiana sepoltura. Tu libero dall’odio qui per essi fermati e prega.» A Fiume più che a Capodistria capita di sentir parlare veneto casualmente per la strada. In una pizzeria in fronte al porto è una donna a salutare un’anziana italiana che aspetta il traghetto per tornare a casa a Cherso e le racconta che ha fatto spese, ha comprato due paia di scarpe, ma le scatole le pesavano per cui le ha lasciate al cameriere che le butti via.


I traghetti della Jadrolinija sono abbastanza numerosi, scendono pendolari e italiani che sono stati in vacanza in Dalmazia. Il porto pare vuoto di navi mercantili, ma con il Progetto Fiume Gateway arriveranno finanziamenti dalla Banca mondiale. Più lavoro al cantiere 3 maggio dove una decina di giorni fa è stata varata la petroliera «Puze» costruita per conto della compagnia «Latvian shipping company» di Riga, in Lettonia. Anche a Cosala, due uomini che scherzano tra di loro in italiano. Uno dei due ha un fisico prestante e una camicia blu elettrico. Mostra la chiesa accanto all’ossario: è quella di San Romualdo, in inequivocabile stile architettonico dell’era fascista. «Mio papà era scalpellino e fu tra i costruttori nel 1934». Il suo nome è Mario Clevisser e i vecchi fiumani lo conoscono tutti. «Negli anni Sessanta ho giocato nella serie A jugoslava di calcio - racconta - ero il portiere del Rjeka e del Sibenik». D’Annunzio organizzando un torneo di calcio fece indossare a una squadra militare maglie con lo scudetto tricolore bianco-rosso-verde: un simbolo repubblicano per irridere lo stemma sabaudo di Casa Savoia. Lo scudetto tricolore sarebbe poi stato adottato dalle squadre campioni d’Italia. «All’arrivo della Jugoslavia - prosegue Clevisser - mio papà voleva scappare in Italia, ma mia mamma era una slovena nata a Fiume e volle che restassimo. Non potè fare altrettanto mio zio fervente fascista che fuggì a Vicenza. Mia moglie per tanti anni ha fatto la donna di servizio a Trieste. Il vero spirito fiumano, non solo italiano, ma degli abitanti autoctoni della città - spiega - si respira al club Mario Gennari.»


Trovarlo è una caccia al tesoro. In albergo è tra i tassisti non lo conosce nessuno. Ma Clevisser aveva dato altre indicazioni: nel rione di Trunic, non distante dalla concessionaria della Honda. Il taxi arriva a Trunic e alla Honda, poi gira a vuota. Chiede informazioni ai colleghi, niente, si fa guidare dall’addetta alla centrale che consulta rapidamente il satellitare: tre volte avanti e indietro finché si arriva a Mario Gennari, ma è una via. Attorno, tutto deserto, tranne un gruppetto di Rom, una delle tante etnìe di Fiume. «Club Mario Gennari con campo di bocce?», «Qui, avanti», rispondono loro. Ecco finalmente il campo di bocce, il tassista prende i soldi e se ne va. Tutti i giocatori di bocce parlano solo croato, tranne uno che spiega. «No qui, Mario Gennari giù in fondo, sotto quella chiesa, forse venti minuti a piedi.» L’impresa pare disperata. Poche centinaia di metri più avanti quattro uomini e una donna bevono birre seduti su panche di legno. «Ho fatto per otto anni la badante in Italia - racconta la donna - tra Codroipo, Merano e la Val Zoldana - molto bella la montagna italiana. Un attimo vado a casa, prendo la macchina e andiamo al club Mario Gennari.» Torna dopo dieci minuti: «Non ho la macchina, andiamo a piedi» Si passano prati, dicariche a cielo aperto, viadotti stradali degradati, cortili di case, par di essere a Reggio Calabria. «Il club prima era qua, ma è stato sfrattato e si è trasferito più avanti». Altri dieci minuti poi un miraggio, quasi la fine dell’incubo: campi di bocce senza delimitazione, due spiazzi ombrosi con tavoli, sedie e tanti bicchieri di vino, in mezzo una baracca di legno, botti di vino e su una parete la gigantografia di Mario Gennari, partigiano ucciso in guerra, come diciamo nella scheda a fianco.

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